Nello stordimento di sole di un pomeriggio di
agosto, avvolto bella sua misteriosa riservatezza, sulla
strada da poco asfaltata, che irriverente lacera il verde di località
Fontanelle, incontro Carmine Pacchiano.
Con passi lenti e regolari,
con voce sommessa e uguale, interrotta, a volte, da un arguto e discreto sorriso,
con occhi schivi, rivolti preferenzialmente al suolo, Carmine mi accompagna
nella penombra di un ampio locale, dove con pazienza e amore certosino per le
piccole cose, nel corso degli anni, ha raccolto oggetti che testimoniano la
vecchia cultura campestre e pastorale della gente lucana di Maratea. Anche
l’aria che si respira in questo ambiente ha qualcosa
di particolare e misterioso, come i lunghi silenzi di Carmine, è un profumo
antico che ricorda quello delle olive accantonate in un tradizionale frantoio o
appena macinate, tanto da riportarmi al Pascoli dei primi poemetti quando nella
poesia Il desinare scriveva:
... l’olio cantò
con murmure sommesso
un acre odore vaporò per tutto.
Ordinatamente disposti,
rivedo oggetti, ormai sfuggiti dalla mia memoria, che mi riportano alla mia
primissima infanzia. Rivedo Assunta, la lattaia, col suo contenitore del latte,
che bussa porta a porta misurando in appositi
recipienti tarati, in luccicante alluminio, la quantità del bianco ed ancora
pulsante umore appena munto; l’aratro in legno dei vecchi contadini, il
vecchio barile, sempre pronto a contenere la fresca e cristallina acqua delle
nostre sorgenti, le vetuste terraglie che, con orgoglio, le nostre donne, un tempo,
portavano sul capo.
É la voce di Carmine che mi scuote dallo stordimento dei ricordi e mi
porta alla realtà: mi presenta rametti e foglie dove incontro parassiti dal
nome per me sconosciuto, complicati tipi di innesti da
anni ormai immobili nella loro fissa legnosità senza vita e senza tempo,
forbici, coltelli, coltellini dalle varie forme e per vari usi, scatole con insetti,
sperimentati dallo stesso Carmine, già molti anni fa, per la lotta biologica
contro altri insetti.
In un angolino vedo poi
vecchie scatole variopinte di prodotti antiparassitari, con istruzioni e indicazioni,
forse un po’ ingenue, per i
tempi ultra scientifici di oggi; bilance,
bilancini, nodosi e rudimentali bastoni per la raccolta della frutta e una lunga
serie di apparati buccali di insetti, mandati a comprare
dallo stesso Carmine a scopo autodidattico.
Questa varietà di oggetti, oltre a ritrovare la
certezza della loro funzionalità, corroborata nell’arcaica sperimentazione
quotidiana di un tempo, queste foglie, rametti e insetti, oltre a rivivere la loro
vita, nel fiorire della natura e degli amori, nel ripetersi costante delle
stagioni, nelle mani di Carmine vengono quasi ad
umanizzarsi. In questa umanizzazione io vedo la
vecchia e virgiliana poesia latina che fa vibrare di vita la natura e il mondo
ad esso collegato, contrariamente a quanto accadeva nella poesia greca dove
tutto il mondo naturale veniva intuito in una visione contemplativa, in un misto di colore, musica e pittura.
Come nella poesia Latina,
dunque, l’etere ride, il mare freme, le piante mormorano e tutto parla, si agita, soffre, gioisce, così, nelle
descrizioni di Carmine, gli insetti lottano, nella loro quotidiana gara per la
vita, le foglie e i fiori ci parlano della loro vitalità e sofferenza
attraverso il loro verde e i loro colori, il tutto in un equilibrio vitale dove il dualismo vita-morte, amore-odio, palpitano
come negli umani.
Nella descrizione di
quanto espone nel suo piccolo museo
rurale Carmine non si ferma solo a dare umanità e poesia ai tanti e tanto oggetti esposti, alcuni tra l’altro di una semplicità
elementare; l’amore e l’acuta osservazione della natura, dei suoi cicli e la
lunga sperimentazione da autodidatta su di essa, lo hanno portato ad una
lucreziana razionalità.
É impressionante, come da
autodidatta, mi piace ribadirlo, Carmine parli con professionalità di cicli biologici, di
piante e di insetti, di lotta biologica per la cura delle piante, di tempi e
tecniche di innesti, di acidità e alcalinità dei terreni in rapporto alle scelte
produttive, di esposizione di piante per la loro migliore crescita e qui il
discorso non finirebbe mai. Nel suo dire lento e misurato non ho trovato mai
retorica, ma ho intuito la ferma volontà di Carmine di voler penetrare sempre di più, mentre illustra le cose da lui raccolte, le leggi
segrete del mondo agricolo e quindi della natura che è anche riscatto scatto
dalle superstizioni che avviliscono i volghi.
In questo piccolo museo
tecnica e natura convivono in felice e discreta simbiosi; la prima non offende
la seconda ma aiuta a renderla vicina all’uomo.
Qui si vive di uno
squarcio di poesia e filosofia lucreziana. La natura provvida non è quella che
affligge e schiaccia il volgo, bensì quella che l’uomo saggio sa farsi amica e sa dominare.
Senza volerlo, tu Carmine
Pacchiano, in questo tuo museo, mi hai fatto rivivere tante sensazioni;
nell’incontrarti, però, casualmente oggi, non avrei
mai immaginato di andare a rispolverare ricordi ormai sopiti della mia infanzia
e dei miei, ormai lontani, studi liceali.
Te ne sono tanto grato.