Dal libro di Sergio De Nicola:

Maratea … parliamone ancora

 

C’era una volta il Convitto Lucano

ricordo del Prof. Rapetti

 

Mi sembra proprio di vederli, ascoltando i discorsi dei più anziani, quegli adolescenti di tanti anni fa, nel loro abito, berretto e cravatta nera, sfilare ordinatamente per le vie polverose di Maratea.

Erano gli interni del Convitto Lucano, qui giunti da tanti paesi della Basilicata, dalle regioni limitrofe e perfino dal Lazio e dalla Sicilia, che, insieme agli studenti esterni di Maratea, riempivano, con la loro presenza, col loro brio e con le loro speranze, l’omogenea quotidianità di un piccolo periferico paese dei primi decenni del secolo.

Il convitto lucano, infatti, nato nel 1900 per opera del benemerito maestro Antonio Schettino, che ne fu direttore per ventidue anni, fu, con i suoi corsi parificati ad indirizzo umanistico e tecnico, per Maratea, per il Lagonegrese, il Cilento e gran parte della provincia di Cosenza, il principale punto di riferimento per l’istruzione maschile dell’epoca, completando così a Maratea l’opera educativa, ad indirizzo pedagogico, svolta già da decenni per le ragazze nell’istituto De Pino-Matrone Iannini.

Nel 1914 il Convitto Lucano accol­se come docente Vittore Rapetti, arti­sta, uomo dalla cultura enciclopedica e che accompagnò la storia del convit­to, attraverso alterne vicende, ininter­rottamente per oltre tre decenni, fin quasi alla sua soppressione, avvenuta nell’immediato dopoguerra.

La continuità di tale istituzione, infatti, andata in crisi nel 1922 con le dimissioni del suo fondatore, fu conti­nuata quasi esclusivamente con fondi personali proprio dal prof. Rapetti.

Questi ne trasferì i locali dal convento dei cappuccini, non più disponibile, nei palazzi D’Alitto-Marini, siti nel centro storico, dove, oltre ad un pensionato, allestì delle aule per la continuazione dei corsi, in ciò sostenuto moralmente da autorità e cittadini, interessati a garantire la continuità dell’istruzione maschile nel territorio che altrimenti sarebbe venuta a mancare.

La validità dei metodi educativi ed organizzativi, riconosciuti in seguito ad alcune ispezioni del Provveditore agli Studi di Potenza dell’epoca, ne permise nuovamente, negli anni successivi, la conversione da pensionato a convitto-scuola parificata.

Intanto, una nobile figura di emigrante, Giovanni Schettino, da poco ritornato dall’america, dove nel cuore aveva conservato il ricordo della sua gente e desideroso di dotare il suo paese natale di un’opera che ne promuovesse nel tempo, ulteriormente, l’emancipazione culturale e sociale, dava inizio nel settembre del 1933 alla costruzione di un imponente edificio, ora sede municipale, che nel 1935, terminati i lavori, dignitosamente accolse, togliendoli dagli angusti ambienti dove era alloggiato, il convitto Rapetti, permettendo così il risorgere del vecchio e glorioso convitto lucano.

Qui, in ambienti luminosi e moderni, attrezzati anche per attività ginniche e creative, tante nuove generazioni di giovani di Maratea e convittori di altri paesi ebbero la possibilità di scambiarsi esperienze culturali diverse e di avviarsi insieme nella via del sapere.

Da valido e sapiente direttore, il Rapetti si circondò sempre di insegnanti valenti e vide nel collegio non una istituzione commerciale, ma - come scrive nel 1933 il prof. Mario Decio Di Dario, suo collaboratore e docente - un’integrazione, non di rado un supplemento della casa domestica, non un organismo produttivo, ma un complesso di piccole famiglie, di ciascuna delle quali è padre immediato l’istitutore e di tutte insieme è padre comune il direttore.

Sembrano queste espressioni, ai nostri giorni, forse un obsolete e difficili da comprendere, ma in verità i suoi allievi ricordano ancora il clima di collegiale e familiare collaborazione che si viveva nel convitto, le serene puntigliose lezioni di matematica e disegno del loro direttore, la sua fermezza e decisione nel pretendere il rispetto reciproco fra i suoi allievi dei quali curava in particolar modo l’educazione, oltre che culturale, morale ed umana.

La sua grande bontà gli permise, in quei tempi non facili, che nessun allievo economicamente indigente abban­donasse gli studi, divenendo per essi e per le loro famiglie, prodigo di consigli e di particolari attenzioni.

Non fu quasi mai deluso dai suoi allievi, che quasi sempre superavano brillantemente gli esami statali di fine corso nel rigido istituto della Badia di Cava dei Tirreni che in quei tempi e per lunghi anni ebbe come preside ed esami­natore il frate benedetti­no Guglielmo Colavolpe, ancora oggi ricordato per la sua grande preparazione e severità nella conduzione degli esami.

Fu principalmente il disinteressato lavoro di Vittore Rapetti, come mi conferma l’ins. Pasquale Stoppelli per alcuni anni suo collabo­ratore, a permettere la sopravvivenza dell’istituto che raccoglieva annualmente come collegiali circa cinquanta ragazzi - come abbiamo visto - da realtà anche molto lontane.

Questi fraternizzarono sempre con i giovani studenti di Maratea e tutti insieme accolsero con simpatia l’allora signorina Lidia D’Orlando, che preferendo gli studi ginnasiali a quelli magistrali, fu l’unica studentessa, negli oltre quarant’anni di vita del convitto lucano, a frequentarne i corsi.

Ho avuto modo di conoscere negli anni scorsi indirettamente il prof. Rapetti, frequentando l’unica anziana figlia Clemenza, delicata e sensibile figura di insegnante elementare.

Attraverso i suoi racconti ho potuto ricostruire ancora meglio il nitido profilo di un uomo dolce come padre, onesto, laborioso e umano nel lavoro, cortese e rispettoso nel rapporto con gli altri, sempre rigidamente contrario ad ogni forma di compromesso e di intrigo.

Vittore Rapetti, nato ad Acqui l’11.8.1869, è deceduto, come si legge sulla sua tomba, a Maratea il 13.6.1958.

La tua tomba, prof. Rapetti, nonostante Tu abbia dato tanto ai nostri giovani in tempi abbastanza duri, proiettandoli verso una vita migliore, è oggi dimenticata e non gode della foscoliana pietà.

Sicuramente da anni una mano riconoscente non vi ha posto un fiore; accetta perciò oggi, dall’aldilà, come fiore questo mio ricordo, scritto da chi non ti ha fisicamente conosciuto, ma che sente di volerti bene e di dirti grazie per quanto ci hai dato.

 

Da “Il Sirino” Maggio 2001

 

 

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