Dal libro di Sergio De
Nicola:
Maratea … parliamone ancora
Olha e
Mykola: uomini non codici
storia
di una coppia di ucraini rimpatriati
dopo un breve soggiorno a Maratea.
Lo spazio di un’alba è
durata la vostra permanenza fra noi, un’alba
particolarmente luminosa per la grande lezione di vita che voi, Olha e Mykola, ci avete donato.
La dignità, l’onestà,
la mitezza, il cristiano perdono verso i tanti soprusi subiti traspariva da
ogni vostra parola, da ogni vostra azione.
Traspariva dei grandi
occhi sinceri, scrutatori, pensosi, pieni di infinite
distese di Mykola, da quelli dolci di Olha segnati,
pur nel sorriso, dalla tristezza di un passato difficile e dalla melanconia
profonda per gli affetti lontani.
Era una delle tante
freddissime sere che hanno caratterizzato il dicembre scorso, quando mi giunse
incerta, trasmessa da un telefonino, la voce di una donna.
C’è lavoro por mi, mi disse; era una voce che nei toni
esprimeva quasi una preghiera.
Quella sera gustavo il
tepore del caminetto, non intuii subito la drammaticità del messaggio e con
fare quasi infastidito dirottai il tutto alla discrezionalità di una mia
sorella, che con me condivideva la necessità di trovare una soluzione per
l’assistenza domiciliare di una anziana zia, che poi,
dopo solo quattro giorni, per rigidità mentale e prevenzioni ataviche, volle la
risoluzione di tale lavoro.
Quei quattro giorni ci
permisero però di conoscere Olha e Mycola, giovane coppia di ucraini, che nei due mesi di
soggiorno a Maratea abbiamo imparato ad apprezzare e ad amare.
Giunsero sognando il
15 agosto
Si rivive nella loro
storia, simile a tante altre, l’umanità e la sensibilità di Luigi Tenco, come
allora, anche oggi non capita e coperta da egoistica indifferenza.
Olha e Mykola hanno sperimentato nel loro
pellegrinare per l’Italia la disonestà di chi ha
rifiutato loro perfino il contenutissimo salario per un faticoso lavoro.
Il 14 Febbraio poi,
giorno dedicato ai più delicati sentimenti dell’uomo, l’impatto definitivo con
un inflessibile ispettore del lavoro che, pur posto di fronte al giudizio della
propria coscienza, preferiva, con la sua umanità sopita, nonostante le
preghiere e le assicurazioni che avremmo fatto tutti i
tentativi per regolarizzare la loro posizione, avviare la procedura di
espulsione per mancanza di visto di soggiorno, applicando così, la rigida
freddezza della legge.
Non certo sono ingenuo
e talmente impreparato da non comprendere le problematiche poste da una immigrazione massiccia e incontrollata ma, la mia
coscienza di uomo, di cristiano, conscio della nostra storia, si ribella quando
questa inflessibilmente viene applicata su gente mite, onesta, indifesa, in
giro per il mondo per regalare un domani migliore ai figli lontani.
Per questi uomini piccoli che voi Olha
e Mykola sapevate definire solo con la parola cattivi dicevate di non serbare
nessun rancore ma, anzi, invitavate noi a pregare con voi, affinché il Signore
sciogliesse i loro cuori e li rendesse più rispettosi e fraterni verso ogni
uomo perché immagine di Dio.
La serena rassegnata
tristezza che si leggeva nei vostri occhi di fronte a tante incomprensioni
spesso non riuscivamo proprio a capirla.
Ecco allora che
inaspettatamente vi vedevamo spuntare sull’uscio di casa, col sorriso sulle
labbra, solo per dirci di stare tranquilli, di non aggiungere ai nostri
problemi i vostri problemi, perché convinti che,
comunque, Dio può solo provare ma non abbandonare i propri figli.
Nei vostri silenzi,
anche quando apparentemente sconfitti e umiliati emergeva non l’aridità di un
cuore asfittico, ma il canto della VITA, di quella
VITA che per dirla con K. Gibran, trasforma in parole
gioie e dolori, sorrisi e lacrime.
Proprio su di voi
fredda, inflessibile, matematica si è riversata la logica della legge; trattati
quasi come criminali inveterati, timidamente avete varcato le soglie di comandi
di polizia e questura, dove ancora risuonano, se solo si sapessero ascoltare, gli
echi delle vostre preghiere e vedere le impronte delle vostre mani pulite, la
limpidezza dei vostri volti.
Il 4 marzo, ligi a quanto prescrittovi, ci avete lasciato.
Le vostre e le nostre
lacrime che si sono confuse e baciate nel momento dell’addio hanno sancito un
patto indelebile di affetto e ricordi.
Vedo, mentre scrivo,
gli occhi gonfi di mia figlia Marta che, impotente di fronte allo sfumare di un
sogno nel quale eravate obbligati a credere e alla sua
libertà di cittadina Italiana di avervi ancora vicino, non può e non sa che
dedicarvi dei versi pieni di amore e di pianto.
Vedo voi su quel treno
che vi porterà lontano in un estremo saluto, mentre lo sportello
inesorabilmente si chiude.
Una distanza enorme
ormai ci divide ... ma se ancora voi vedete la stessa luna, non siamo poi così
lontani.
Da “Il Sirino” Maggio 2002