Dal libro di Sergio De Nicola:
Maratea … parliamone ancora
Spesso cantavano le libbanare, sotto il cocente sole del Porto, mentre
intrecciavano le resistenti fibre di tagliamano (stipa
tenacissima), per ricavarne i cosiddetti libbani,
grosse e resistenti corde vegetali, che. insieme alla vendita del pesce,
rappresentavano il reddito principale di molte famiglie del rione.
Varcavano il mare queste corde che prendevano
solidamente corpo dall’intreccio delle filamentose fibre di questa pianta aspra
come le balze da cui le nostre donne la falciavano e raggiungevano i più
disparati luoghi del mezzogiorno d’Italia (specialmente Napoli e Taranto) dove venivano utilizzate nei vivai di mitili e come ausilio
essenziale per varie attività marinare.
L’eco dei canti di Filiciuna
( Felicia Iannini) e di Rusulia (Rosalia Flora detta pilu
russu )
tra le tante libbanare risuona ancora nella mente di
chi le ha conosciute : è il rimbalzo
sonoro di una Maratea che non esiste
più, fatta di sacrifici, di scommesse quotidiane per rincorrere la
sopravvivenza ma anche di rassegnata accettazione di quel poco che la
Provvidenza riusciva a dare e che con gioia veniva condiviso nel saldo calore
familiare.
Ed è proprio ad alcune di queste
attività marginali che si svolgevano, senza controllo di tempo, sull’uscio di
casa, all’angolo di un vicoletto o in un oscuro tugurio, che vogliamo brevissimamente dar voce ricordandone, quando possibile i
loro attori, per farli rivivere nel breve tempo di una lettura, nello scenario
sereno di quel presepe della Maratea che fu.
Nel silenzio incantato di questi nostri vicoletti, dove perfino il tempo sembrava essersi fermato nell’ansiosa attesa di qualche novella epifania, si muovevano, come entità quasi paranormali improvvisamente materializzatesi, strane ma capaci figure di artigiani, tutte con una loro originalità, con una loro visione del mondo, con una loro filosofia di vita.
Chi non ricorda la voce soffocata e la
figura sbilenca di Donato Ciliberti venditore di
terraglie e di altre mille cose disordinatamente accatastate in un umido e
oscuro basso che era anche laboratorio per tutte le sue attività.
Era il tuttofare di paese e perciò
detto Omnia; era lu ’mbagliseggi ovvero il rifacitore del sedile delle sedie
che si era per vetustà sfondato e l’accunzambrelli
ossia il ricostruttore della
funzionalità del telaio degli
ombrelli nel quale sostituiva le stecche rotte con altre prelevate da telai di
altri vecchi ombrelli che teneva gelosamente custoditi come fonte inesauribile
di pezzi di ricambio.
Ma Donato si improvvisava
anche calzolaio, facitore di scope, radiotecnico prelevando , in quest’ultimo
caso, pezzi di ricambio da una catasta di vecchie radio e grammofoni che
insieme a tanti utensili e altre vecchie cose costituivano nel basso il settore
antichità Omnia.
Questo multiforme genio
dell’improvvisazione non trovava però il tempo per rendere sicura la
chiusura del suo negozio laboratorio che a sera chiudeva con due grosse spranghe
di legno aiutato talvolta da Dolora (Dolores), la sorella fruttivendola, imperiosamente
chiamata per tale rito.
Rivestiva, invece, fiaschi e damigiane
con trecce ricavate dalle fibre di tagliamano la
Signora Giovanna Dalascio.
Era la ‘mbagliapiretti
del paese,
così come tale attività veniva chiamata e alla quale
si dedicava negli intervalli delle faccende domestiche e come quello del cuffaro ossia del facitore di canestri, cestini, panieri e principalmente
coffe per muli, di cui maestro era il sig. Biagio Martino, aveva carattere di
stagionalità essendo in rapporto alla evoluzione biologica delle piante che per
tali lavori erano indicati come la tagliamano, la
ginestra, la canna, il salice ecc.
Vicenzu u malamenti
(Vincenzo Pellegrino) così chiamato
per la sua facile irascibilità e propensione alla bestemmia era poi lu scarafugliaru
del paese, ossia colui che, oltre a ideare e
realizzare lanterne, ciucculatere
(caffettiere) e utensili vari per uso domestico, ricopriva con un bagno di
stagno caldaie e recipienti prevalentemente di rame bucati o usurati dal tempo
e come u muticeddu (Giuseppe Calderaro), così chiamato perché sordomuto, e
Domenico Di Mingo dettoTirringiolo cuciva
con graffe metalliche piatti, otri e altri oggetti di creta restituendoli
all’uso quotidiano.
Erano i cusipiatti
del paese e il loro ricordo testimonia la povertà di un tempo nel quale ogni cosa aveva il suo valore e veniva gelosamente
custodita.
Né si sente più il grido lacerante col
quale i sanapurcelli ovvero i castratori di maiali
annunciavano la loro presenza operosa sul territorio; essi venivano
prevalentemente da Episcopia ma a Maratea,
a quanto mi riferiscono, in tale finezza chirurgica eccelleva Panzuti Giovanni Andrea, lo zampognaro per eccellenza,
meglio conosciuto come Giuvanni ’Ndrea, né si ode
più lo stridente rumore metallico
prodotto dall’arrotino, rappresentato in paese da Giuseppe Zaccaro o lo
stizzito mormorio, di fronte alle intemperanze equine del maniscalco Giovanni
Schettino detto u gibbusu.
Preceduti dal rauco suono della tufa
prima e da uno squillo di tromba poi i banditori , il
cui ultimo rappresentante è stato Antonio Limongi detto Ndondò, annunciavano avvenimenti eccezionali,
interruzioni dell’erogazione della luce e dell’acqua o l’arrivo in piazza di un
qualche camion carico di primizie, mentre altere, con i loro barili pieni di
acqua sulla testa o con ceste cariche di
panni, le acquaiole e le lavandaie si
recavano in prossimità delle tante sorgenti del comune per sopperire, con il
loro lavoro, alla penuria di acqua che si aveva nelle case prima della
costruzione della rete idrica.
Dai monti poi e dalle campagne si
elevava spesso, stagliandosi contro l’azzurro del cielo, il fumo nero prodotto
dalla combustione del
legno di leccio, quercia, cerro da cui
Gaetano Surace conosciuto come u carvunaru ricavava il carbone o dalle fornaci nelle
quali Antonio Limongi detto menzurotulu e
Andrea Maimone (Ndrea di
Mammuni) cuocevano le pietre per ricavarne la
calce.
Quest’ultimo, con aria saputa, insieme
al sig. Domenico Tortorella, prima dell’avvento dei vari geometri, era il
cosiddetto perito universalmente riconosciuto per valutare proprietà o
tracciare e dirimere questioni di confini nel rispetto di diritti e abitudini
sanciti dal tempo.
Per il suo carattere estroso mi piace
ricordare Arcangiulillo del Campo
(Arcangelo Esposito), scalpellino, che col suo discusso orecchino anticipava di
decenni i tempi o quel poeta della sartoria Gennaro De Luca del rione Massa detto Sarcinarru il quale cuciva vestiti ignorando
totalmente il centimetro e tagliando “a occhio” i tessuti osservando il cliente accostato alla parete
di un muro del suo laboratorio.
Erano questi alcuni degli antichi
residuali mestieri di un tempo che fu sopravvissuti a
Maratea fino alla fine degli anni cinquanta.
Con l’immaginazione possiamo rivedere , ora, questi operatori intenti nel loro lavoro, avvolti nel silenzio rotto solo dal rumore
dei loro rudimentali attrezzi e dei loro canti.
Non schiavi, come oggi, del pressante
valore del tempo, questi
personaggi da presepe vivevano
l’incanto delle loro giornate richiamati alla vita solo dai familiari
stanchi rintocchi delle campane che annunciavano l’ora dell’Angelus e dell’Ave
Maria.
Da “ Il Sirino “ Agosto 2004