di Aldo Fiorenzano
Alla fine
della seconda guerra mondiale Maratea era in condizione di povertà assoluta,
come d’altronde tutti i paesini del sud. I giovani erano in guerra ed il paese era abitato da donne ed anziani. La terra era in
totale stato di abbandono e persino il mare era particolarmente avaro.
I giovani che fortunatamente tornavano
dalla guerra, dopo l’abbraccio con i familiari restavano sgomenti nel vedere il
totale abbandono che li circondava e le prospettive per il futuro erano tutt’altro
che rosee. Non restava che la via dell’esilio. L’America era il sogno da raggiungere
e la strada più corta era quella di raggiungere parenti o amici che già erano
emigrati precedentemente e che si erano più o meno
sistemati. Bisognava trovare i soldi per pagarsi il viaggio per imbarcarsi sul
bastimento che partiva da Napoli. Quasi per tutti il grado di
istruzione era modesto, le prime due o tre classi elementari fatte pure
saltuariamente quindi le possibilità di trovare un lavoro decente erano proprio
poche.
Felipe era un
giovane del porto, piccolo di statura ma molto sveglio di carattere, aveva
perso suo fratello in guerra, affondato insieme al sommergibile dove era
imbarcato. Egli conservava in tasca il foglio di giornale che recava la notizia
dell’affondamento del sommergibile con tutti i nomi dei
caduti compreso quello di suo fratello.
Tornato dalla guerra aveva iniziato a pescare per procurare da mangiare alla sua famiglia, fatta solo di donne visto che suo fratello era morto. Luigina e Franceschina, sue sorelle, energiche come lui, lavoravano tutta la giornata vendendo i pesci, tagliando l’erba alfa con la quale facevano i libani, corde vegetali usate a mare e raccogliendo i mazzami, legni che il mare trasportava sulla spiaggia. Nonostante tutto questo lavoro, a stento si riusciva a mangiare una volta al giorno, troppo poco e quindi ogni famiglia si adoperava a conservare tutti i soldi possibili per raggiungere il prezzo del biglietto affinché potesse mandare in America almeno un familiare con la speranza di essere o richiamati o di ricevere delle rimesse periodiche per potersi garantire almeno il cibo. Passato il tempo necessario per raggiungere la somma occorrente per l’acquisto del biglietto, Felipe andò in America e raggiunse dei suoi parenti che lo ospitarono per un poco ma poi subito gli fecero capire che doveva arrangiarsi da solo . Lui capì subito che nel suo futuro c’era il rancito, una capanna di cannucce costruita abusivamente su una collina ai margini della città di Caracas, capitale del Venezuela. Tra un espediente e l’altro passa il lungo soggiorno americano di Felipe, non poté mai tornare in Italia per i soliti problemi economici visto che non tutti facevano fortuna, alcuni, come lui, dovevano accontentarsi di vivere o spesso, di sopravvivere.
Il suo colpo
di fortuna - si fa per dire - consistette nel fatto che visse nel suo rancito tanti anni da acquistarne il diritto di proprietà e
quando lo Stato venezuelano, dovendo urbanizzare la zona, glielo espropriò, dovette pagargli il suolo.
Fu così che
si procurò i soldi per poter tornare, ormai vecchio,
nella sua Maratea dalle sue sorelle.
Io l’ho conosciuto al suo ritorno in Italia dopo oltre quarant’anni
di assenza. Non parlava venezuelano, non parlava italiano, non parlava il
dialetto del Porto ma una miscela delle tre lingue parlate
senza usare segni di punteggiatura. Parlava a raffica e ogni discussione
iniziava sempre con: mira hombre... .
La sua famiglia si è adoperata subito per
trovargli una sistemazione e alla fine sono riusciti ad
organizzare una stanzetta tutta per lui, purtroppo mancava il bagno ed un
parente, studiando i vari scarichi che passavano sotto la casa, gli montò una
tazza in un angolo della sua stanzetta. Rimasi molto male quando l’andai a trovare e vidi il bagno a vista, puzza compresa.
Mi adoperai per fargli fare le varie pratiche per
ottenere la pensione sociale e lo raccomandai ad amici per accelerarne l’iter.
Effettivamente non dovette aspettare molto per ottenerla e lui ne fu
particolarmente contento. Pur essendo ultraottantenne saliva e scendeva dalle barche con
destrezza ed era sempre di buon umore. Poiché molto probabilmente la glicemia
era alta, mangiava spesso e cacciava dalle sue ampie tasche grappoli interi di
uva, pesche e pere mature sempre intere e noi lo prendevamo in giro.
Mi ricordo
che un giorno si lamentava del fatto che tutti avevano
avuto un aumento di pensione di 50.000 lire tranne che lui; feci verificare e
si accorsero che aveva comunicato dei dati sbagliati per cui ci sarebbero stati
ulteriori ritardi. Infatti ebbe l’aumento dopo oltre
un anno di attesa. Rimasi sorpreso e triste quando mi chiese come doveva fare
per comperarsi un posto al cimitero visto che aveva
avuto anche gli arretrati. Io lo sgridai e gli dissi che quei soldi se li doveva godere, per pensare alla sepoltura c’era sempre tempo
e poi una volta morto un posto vale l’altro. Lui mi rispose che almeno da morto
voleva riposare in pace.
Un giorno
tornò da mare, mi venne vicino e mi diede una busta di pesce contenente
un’aragosta, un paio di cicale di mare e un paio di lucerne di mare ancora
vive, pesci speciali per fare la famosa zuppa
di pesce . Parlando sempre a raffica mi fece
capire che li dovevo portare all’amico che lo aveva aiutato ad
ottenere
Un amico
medico che l’estate viene ad abitare vicino la sua casa lo teneva in cura, nel
senso che gli faceva una visita e lo consigliava sui farmaci da prendere e
sulla dieta da fare, lui però non teneva molto conto dei suoi consigli. Un anno
questo medico gli portò in regalo un bel paio di
scarpe che però risultarono due o tre numeri più grandi del suo piede. Lui, per
non fare dispiacere al dottore gli disse che andavano benissimo e se li mise
pure.
Quando lo
vedemmo camminare come un papero, prima ci fece ridere, poi pensare.
Dopo breve
malattia Felipe tolse il disturbo in punta di piedi, lasciandoci come
insegnamento l’esempio che si può vivere sereni pur non avendo quasi nulla,
ricchi della pensione sociale e della luce del sole che, per fortuna, splende
per tutti.
Grazie Felipe