Queste poche righe di ricordi della mia infanzia sono una rievocazione di usi e costumi forse già dimenticati da molti. Non sono certamente uno scrittore e nemmeno penso di esserlo. Sono un “imbratta carte” e un nostalgico che vive nel futuro, convinto assertore che la storia, il nostro passato, deve esserci di stimolo per migliorare l’avvenire dei nostri figli.

 

Esternazioni e ricordi

La festa di San Biagio

 

Il primo giorno del mese di febbraio, quando nel paese cominciava il triduo in onore di San Biagio, il Sindaco, il mio primo ricordo è solamente di Biagio Vitolo, de facto non ricordo i precedenti, faceva affiggere un manifesto per il paese invitando tutta la popolazione a partecipare alla riunione che il giorno seguente la festa del Santo, 3 febbraio, si sarebbe tenuta per creare il nuovo Comitato, nomina che durava esattamente un anno: dal 4 febbraio al 3 febbraio dell’anno seguente. Luogo della riunione: la casa comunale; proprio per sancire l’ufficialità del Comitato per una ricorrenza e festa che interessava tutta la popolazione di Maratea. Di diritto era Presidente del Comitato il Sindaco pro-tempore.

 ‘U Putistà, Biagio Vitolo, così era chiamato bonariamente per essere stato Potestà durante il ventennio fascista e Sindaco dopo, nel periodo dei miei ricordi, è stato il rivitalizzante della Festa, caduta di tono dopo l’avvento a Maratea dei Padri Oblati. Questi ultimi, appartenenti ad un Ordine Religioso di origine francese, provenienti da varie regioni italiane, dal Nord alla Sicilia, erano completamente assenti ai bisogni culturali del popolo Marateota, bisogni che si rappresentavano specialmente nella conservazione e nella tutela dei riti, degli usi, dei costumi e delle tradizioni. Dopo circa cinquanta anni di gestione O.M.I. le tradizioni di Maratea o non esistono più o sono state completamente stravolte. Pazienza: uno tsunami culturale ha dilaniato Maratea!

Alla prima riunione del Comitato partecipavano, quasi sempre, le stesse persone dell’anno precedente e spesso, quando scarsa era l’affluenza degli aderenti, il Sindaco chiedeva la volontarietà dei consiglieri Comunali, specie di quelli eletti nelle frazioni.

Ricordo i giri, come in gergo vengono chiamate le questue, che si effettuavano per il paese e che si organizzavano per le frazioni e la valle: quattro o più componenti, a piedi, si recavano, per tre mesi, per tutte le case di Maratea a piatire l’obolo per i festeggiamenti di San Biagio; c’era chi preferiva andare ad Acquafredda, chi a Brefaro o chi per la Valle e già la grossa difficoltà era creare il team perfetto per le varie località.

Il canovaccio del colloquio era standard quando si bussava ad ogni casa:

* Buongiorno;

* Ah! sisi chiddi da’ Cummissiuni!? (Ah! voi siete quelli della Commissione!?)

* Si;

* Anè, chi festa facesi chist’annu? (Scusate, che faste fate quest’anno?)

* ‘A solita; (La solita festa)

* E a cu facesi vinì sta’ vota? (E quale personaggio [dello spettacolo] verrà quest’anno?)

* Dipenditi dai soldi chi facemu; (dipende dai soldi che incassiamo)

* Aggiu capitu! (Ho capito!)

* Beh, ch’amà signà? (Allora cosa segnamo?)

* E mo’ non mi ni trovu soldi ‘ngoddu; sa’ chi ‘nc’è, signati quannu a l’annu passatu, ca po vi ‘i vengu a purtànanzi u tavulinu o Sabutu o Dominica! (In questo momento non ho soldi addosso; è il caso che segnate la stessa offerta dell’anno scorso, che vi porterò al tavolino o il Sabato della festa o il giorno dopo Domenica!)

* E quannu è datu l’annu pasatu? (E quanto hai dato l’anno scorso?)

* E mo’ sacciu! … signa na decimila liri ca’ po si pozzu vi davu n’ata ‘nzigghicedda!... (Non ricordo … segna circa diecimila lire, perché se ho la possibilità vi darò una cosina in più!...)

* Va bbo. E mo’ scusa. (Bene. Scusa e arrivederci)

* Nenti. Grazie a bbui. (Niente. Grazie a voi)

Così gli approcci nelle famiglie, con qualche leggera variante dialettale nelle frazioni. Spesso a fine serata il Comitato rientrava con la rubrica piena di nomi e con impegni di offerta ma senza denaro contante: subiva anche mortificazioni da famiglie che si nascondevano o che trattavano i Componenti con arroganza o alla stregua di molestatori elemosinieri professionisti…

Dopo circa tre mesi di impegni quasi diuturni e di infinite discussioni sulle scelte delle bande musicali, di apparatori (i fornitori di luminarie), di fuochisti di giorno e di notte, di Predicatori e di tante altri particolari, importanti per una buona riuscita della festa, si arrivava finalmente alla stesura del manifesto, l’atto ufficiale che avvisava la cittadinanza di come si sarebbe svolta la Festa di San Biagio. Per una settimana non si parlava d’altro e le critiche più forti erano sempre di quelle persone che mai facevano parte del Comitato, per loro scelta, e mai si occupavano del sociale; anzi, come ruspe demolitrici, distruggevano con gioia  quello che gli altri costruivano. Ancora oggi molti sono i proseliti vagabondi di questa stirpe.

San Biasi va’ pa’ terra: era l’inizio della Festa. Al Castello a mezzogiorno si faceva la Processione con la statua del Santo dalla Chiesa alla Croce, monumento voluto da ‘U Pudistà, Biagio Vitolo, situata dove ora è la statua del Cristo e spostata attualmente sulla montagnola vicino al Cimitero. Questa processione con il passare degli anni era poco sentita dalla popolazione e circa quaranta anni fa, per portare il Simulacro argenteo in processione furono chiamati gli operai che stavano costruendo la statua del Cristo, per la mancanza assoluta di fedeli. Fu deciso così, dopo centinaia di anni di tradizione, di spostare la processione al pomeriggio. Oggi San Biasi chi va’ pa’ terra è un momento religioso seguito da tutta la popolazione. Ogni avvenimento è legato alla storia del tempo: una volta si facevano le processioni di mattino perché si era legati alla regola religiosa che non faceva celebrare messa dopo aver mangiato, la Comunione doveva essere fatta a digiuno completo e poi, cosa molto importante, nelle strade non c’era illuminazione e camminare nei vicoli di notte era un’impresa ardua. Oggi è tutto cambiato e perciò mi batto, da molti anni, per consentire che anche la Processione di San Biagio venga fatta di sera, così come sono riuscito, dopo tanto insistere, a far restare il sabato sera la Statua del Santo all’Annunziata e di far celebrare la messa vespertina in Piazza, con una massiccia affluenza di fedeli impensabile alla Chiesa Madre.

Oggi, la processione di quando San Biagio va per la terra ha anche la partecipazione di una banda!

Mons. Don Domenico Damiano, parroco e rettore della Basilica di San Biagio, si occupava di far arrivare il Predicatore per le Sante Quarantore, cioè quando si esponeva il Santissimo Sacramento dal mattino sino alla sera, dal lunedì al Martedì, e ogni sera c’era l’omelia del Predicatore: molto alto era l’ascolto e se i fedeli, giuria popolare, davano il nulla osta si complimentavano sulla scelta altrimenti le critiche non tralasciavano nemmeno il povero Parroco. Spesso i giudici arbitri erano quelli che si recavano in chiesa solamente in occasioni particolari: loro giudicavano solamente e, da bravi chiazzaioli, non si occupavano di nient’altro. Al termine della funzione religiosa ritornavano in piazza e davano il verdetto: U pridicaturu è da Pulpitu o da Balaustra (da Pulpito era bravo, mentre non lo era se giudicato da Balaustra). La critica e basta.

Le quarantore erano la preparazione spirituale alla Festa, che di fatto cominciava il Giovedì, quando San Biagio scende dal Castello.

Alle nove, dopo la santa messa, i famosi portatori, si preparavano per vestire la Statua d’argento di San Biagio con la veste color porpora: la fantasia popolare ha fantasticato molto su questa vestizione e di conseguenza svestizione a Capo Casale. Le più diffuse dicerie erano: i pirati non rubavano gli oggetti color porpora oppure il riverbero argenteo non si vedeva dal mare e quindi si evitavano incursioni saracene. Purtroppo queste sciocchezze venivano anche dette e ripetute dagl’insegnanti a scuola e di conseguenza l’amplificazione del falso era inevitabile. Purtroppo ancora oggi poche sono le persone che conoscono la storia della vestizione di San Biagio: i pirati o saraceni non c’entrano affatto ma solamente scaramucce di secoli passati e interessi economici tra i parroci di Maratea Superiore e Maratea Inferiore.

La Statua di San Biagio fu trattenuta a Maratea Inferiore e chiusa nel convento delle Monache di Clausura (dove attualmente è l’Hotel delle Donne Monache) per oltre sei mesi dal Parroco dell’epoca perché, diceva, San Biagio è di tutta Maratea e perciò doveva rimanere sei mesi al Castello e sei mesi nel Borgo. Chiamato il Vescovo a dirimere la diatriba fu stabilito che il Sindaco di Maratea Inferiore, il giovedì precedente la seconda domenica di maggio, richiedesse ufficialmente, con un documento reso legale che consegnava di persona al Parroco di Maratea Superiore, la Statua di San Biagio e che fosse il garante della restituzione della Statua entro le ore dodici della seconda domenica di maggio. Succedeva che, alla Statua che attraversava tutto il Castello per la discesa nel Borgo, la popolazione offriva soldi e beni di sostentamento (grano, vino, salumi, galline, conigli, ecc.) che andavano al Parroco del Borgo a scapito del Parroco del Castello, perché quando il Santo ritornava, ormai le offerte erano già state fatte, per cui veniva meno il sostentamento del Parroco di Maratea Superiore, che viveva, d’altronde, di elemosine come tutti i preti del tempo.

Perciò alla presenza dei due parroci e del vescovo si stabilì che la Statua doveva essere portata nel Borgo in maniera strettamente privata, coperta con un panno e accompagnata fino al confine della Parrocchia da un sacerdote non vestito di abiti sacri (per evitare che si facessero offerte). Qui poteva essere spogliato e quindi accolto con gli onori dovuti.

Il confine tra le due Parrocchie era ni muri, dove oggi viene fatta la benedizione al mare… Lì si spogliava il Santo e si benediceva: in tempi recenti, dopo la costruzione della strada rotabile, l’incontro con San Biagio avviene a Capo Casale e ni muri è rimasta la tradizione della benedizione, che dal Santo si è spostata al mare!...

Appena terminata la vestizione del Santo al Castello, al suono della Banda, i portatori cominciavano la marcia che li portava a Capo Casale: tante le persone e sempre varie le condizioni climatiche e la cosa che più emozionava erano le persone scalze, che per voto, accompagnavano il Santo senza scarpe per la via accidentata.

La processione scendeva veloce pa  via nova, la nuova strada creata e voluta sempre da ‘u Putista Biagio Vitolo che attraversava le case abbandonate del Castello; il simulacro rosso-amaranto si stagliava imperioso e ondeggiante sopra la folla devota. Il prete, davanti a tutti, con il Reliquiario del Santo era accompagnato dall’immancabile e instancabile Pastorino che portava la cassetta con dentro la Croce pastorale e l’anello vescovile del Santo e la preghiera che veniva letta ni muri prima della benedizione. I portatori, dopo l’uscita dalla Chiesa e finché la strada era in buone condizioni, portavano il Santo, mentre quando cominciava la strada sconnessa, a via vecchia, concedevano a chiunque questo loro privilegio, però sino a prima dell’arrivo a Capo Casale…

Appena il Santo era fuori la Basilica cominciava anche il Rosario a San Biagio, cantato rigorosamente in dialetto:

San Biasi, miu gran Santu

chi da Diu si amatu tantu,

quanti grazi(e) da ‘u Celu vulimmu

a San Biasi ricurrimmu.

Oh Divinu Prutitturu,

chinCelu fusti amatu,

Prutitturu nostu e avvucatu:

comi nostu Difinsuru,

fanci grazi(e) o gran Santuni!

 

Per dieci volte si cantava la preghiera, come un comune Rosario, poi si intonava un’invocazione alla Madonna, quindi si ricominciava ancora con il Rosario:

Gloria a bVui Pat(e)Eterno,

Gloria a bVui Figliu Divinu,

Gloria a bVui Spiritu Eternu

chi fuiti e sempi sarà

pi tutta l’eternità.

Maria, oi Maria,

tu sai li mei guai,

tu poi e si voi,

oh Maria, aiutanni tu.

A la bella mia Maria

e a ‘u caru mio Gesù

a bVui davu lu cori miu

e po’ non u vogliu cchiu.

 

Questa era la preghiera alla Madonna che faceva da stacco tra una posta di rosario a San Biagio e l’altra.

Nanzi ‘a casa ‘i Iaselli cominciava la via vecchia, sconnessa e anche un po’ pericolosa; due persone riuscivano appena a restare affiancati fino ni muri, dopo la strada era un poco più larga ma molto sconnessa fino ni grutti, ex cava di sabbia, e finalmente si faceva la discesa che portava a Capo Casale. Una gran folla aspettava sempre con pazienza la Processione e persone con visi nuovi e con accenti francesi e spagnoli erano avvicinati e salutati da tanta gente festosa: erano i marateoti emigrati che tornavano dal lontano sud America o dalla Francia e tanti, invece, che la vita aveva portato ad abitare in altri posti d’Italia, ma che immancabilmente tornavano tutti per San Biagio, contenti di fermarsi qualche giorno con i parenti e gli amici della loro infanzia!

Carabinieri in alta uniforme, completi di sciabole, lanterna e pennacchio, aspettavano col Parroco, il Sindaco con la fascia di primo cittadino, e tutte le autorità, civili e militari l’arrivo della Statua: tra gli alberi si intravedeva la Statua ricoperta di rosso e la gente cominciava a far ressa vicino al piedistallo dove spuninu ‘u Santu, anche questo manufatto costruito da ‘u Putistà, per essere più da presso nel momento dello scoprimento.

Deposta la Statua sul piedistallo, i Carabinieri e i portatori si disponevano ai lati e Luigi d’Erminda, al secolo Luigi Pacchiano, saliva con una scaletta per cominciare a togliere il manto rosso a San Biagio: il silenzio calava improvviso tra tutti i presenti e man mano che l’argento della statua cominciava a far capolino tra le pieghe della copertura, tanta gente non distoglieva lo sguardo da quella effige e gli occhi distillavano lacrime. Si piangeva perché la persona cara non era più in vita o perché era emigrata in altro paese, o ancora perché poteva essere ammalata; quante lacrime si sono versate specialmente quando, in tutto il suo splendore, finalmente si ammirava San Biagio; quanti drammi, quante tragedie, sono state rievocate dalla gente in quei pochi minuti prima dello scoprimento, tutte comunicate a San Biagio perché, come nostu Prutitturu, potesse intervenire in modo positivo e tutte le invocazioni silenziose e composte, di un popolo fiero e orgoglioso di avere un Protettore così grande, si concludevano con una unica invocazione: Oih San Bià! Mai scene d’isterismo caratterizzavano le nostre silenziose preghiere al Santo; mai nessuno chiedeva al vicino, all’amico, al conoscente perché camminava scalzo o perché piangeva o quale dramma l’affiggeva: il rapporto con San Biagio era così intimo che nessuno poteva o doveva scalfire quei momenti di sacralità.

Gli occhi lucidi di pianto degli astanti, facevano emozionare anche gli scettici.

Un momento di commozione generale, la marcia della banda musicale e la batteria pirotecnica erano i segnali che la Festa era iniziata e che San Biagio era a Maratea e che ancora ci proteggeva e che ancora potevamo contare su di Lui.

Il sorriso ritornava in tutti i presenti. E mentre si ascoltavano i colpi sparati alla Stazione dai ferrovieri, il corteo proseguiva nell’ufficialità dovuta, passando davanti al portone dei Calderano per giungere sino alla Chiesa Madre: esiste ancora la documentazione che San Biagio, finché il mondo esiste, così è scritto in latino, deve passare per Capo Casale, perché la famiglia dei Calderano aprì al dominio pubblico la strada di transito che era proprietà privata.

Dal 1989, al secolare protocollo dello scoprimento della Statua, si è aggiunta l’offerta delle Chiavi della Città al Santo da parte del Sindaco, come a sancire ulteriormente il totale affidamento del nostro paese a San Biagio.

Le campane di tutte le chiese di Maratea squillavano a festa sino all’inizio della Messa cantata a tre preuti alla Chiesa Madre.

Grande Omelia e poi, finalmente si scendeva in Piazza.

Tappa d’obbligo era da Ciccillo Zaccaro, il pasticciere per eccellenza di Maratea, gentile e dolce ancora più dei suoi manufatti, per prenotare i durci piSabatu (i pasticcini per il Sabato). Il suo locale, di fronte alla Colonna dell’Addolorata, era spoglio di qualsiasi dolcezza tranne i caramelli ‘i vitru, le caramelle fatte con lo zucchero caramellato, e qualche biscotto savoiardo. Ai figli di chi andava ad ordinare i dolci regalava solamente una caramella di vetro per dimostrare… il suo buon cuore! Non si potevano ordinare più di dodici paste per ogni famiglia, doveva contentare tante persone per cui ogni richiesta superiore al tetto massimo fissato era perfettamente inutile. Lo ricordo sempre con affetto perché, non avendo figli, a me voleva particolarmente bene e ogni venerdì sera, della festa di San Biagio naturalmente, mi chiamava e mi dava un bocconotto che dovevo mangiare in sua presenza, poi mi faceva una carezza sulla testa e mi diceva: mmè, ni videmu l’annu chi bveniti, si Diu voti!

Cominciavano ad arrivare le prime barracche e i venditori di noccioline: chiddii Tropea, che si stabilivano vicino al Campanile dell’Annunziata e ‘a figlia du Piparu cu Tulimieri vicino all’Immacolata. Immancabili erano i venditori di palloncini che cominciavano dal mattino a gonfiarli con la bocca. In piazza dell’Impero c’era il tiro a bersaglio, gestito da una signora piccoletta, molto scura di carnagione, truccata con labbra rosse e cipria in abbondanza, fumava in continuazione e teneva sempre un piccolissimo cane in braccio che non lasciava mai, nemmeno quando caricava il fucile a piumini, per paura che qualche ragazzo lo colpisse con qualche “schioppo” maldestro …

Nel tardo pomeriggio la passeggiata delle famiglie era la prova generale della festa.

Il venerdì era una giornata di pausa. Nel pomeriggio il Comitato faceva l’ultimo giro peri vicoli del paese e dai commercianti. Questi ultimi, la cui offerta era sempre modesta, si lamentavano sempre perché cu sti barracchi chi venunu nui non guadagnamu nenti.

L’ultimo atto della sera era di controllare, in Via Mandarini, i venditori ambulanti che erano arrivati e informare i propri amici e parenti che c’erano: i paglietti (un venditore di cappelli e di paglie); i cazuni (pantaloni); i cozzi (casalinghi); i ferri (ferramenta); i pezzi (abbigliamento); i seggi (sedie); ngiocularie (oggetti vari e ninnoli); scicquagli (soprammobili).

In piazza dell’Impero, invece, si sistemava ‘u piattaru, un certo signor Francesco Attimonelli della provincia di Bari (Andria), con il suo fido aiutante Sebino. Attimonelli teneva in Maratea un deposito, sotto la casa del Professor De Nicola, e qui faceva capo per vendere su tutto il territorio del Lagonegrese. Era un ottimo imponitore e venditore: giocherellava con i piatti come un artista di circo e certamente buona parte delle vendite erano dovute alle sue doti di ammaliatore di pubblico. Era lo spettacolo abbinato al commercio.

L’altra parte della piazza, invece era occupata da chiddi d’i bambuli (quelli delle bambole), quattro signori calabro-siculi, con vago accento toscano. Vendevano delle cartelline con una serie di numeri. Terminata la vendita un bambino estraeva un numero da un sacchetto e chi aveva acquistato la cartellina con il numero vincente aveva diritto a scegliere una busta nel cui interno era inserito un buono premio che poteva essere una bambola, una bicicletta, un elettrodomestico o una somma irrisoria pari al prezzo della cartella. La trattativa era la busta: il gestore offriva un oggetto in cambio della busta con una aggiunta di danaro. Quasi tutti sceglievano la busta per vincere la bicicletta o la bambola, ma i quattro amici, con molta abilità, raramente facevano uscire grossi premi: loro, infatti, giravano per le fiere per guadagnare qualche soldo e non certamente per fare beneficenza … …

Stesso discorso era per la roulette il cui posto era nnanzi ‘a funtana: molti erano i giocatori che puntavano sul tappeto verde con la speranza di favolosi guadagni, ma gli unici a vincere erano i croupières, vestiti con giacche e cravatte consumate dal tempo e con scarpe e pantaloni rattoppati, perché tanto sotto il tavolo non si vedevano … …

Ni ottu adda essi ‘mmezu a chiazza, si non si ruppiti ‘u pustali. Questa era la risposta che davano quelli della Commissione a chi chiedeva della musica per la Festa di San Biagio.

Così ricordo i capannelli di competenti ed esperti musicali che in piazza arzigogolavano sulla banda scritturata e contrattata dal Comitato per la festa del Santo protettore San Biagio­­. Le strade provinciali e statali per giungere a Maratea sono sempre le stesse e ancora oggi  molto dissestate come allora. Gli autobus o postali, come ci abituavano a chiamarli erano fatiscenti e spesso si fermavano per guasti improvvisi per cui  molte volte i musicisti non arrivavano per l’ora stabilita dal contratto, le ore otto del Sabato.

I componenti del Comitato, erano già in Piazza sin dai primi colpi scuri che il fuochista sparava, con una precisione quasi cronometrica, alle sette e trenta minuti, Arretu ‘a stradella (Dietro la Stradella- attuale Via Roma). Gli spari erano il segnale dell’inizio della Festa ed erano la sveglia ufficiale di tutti i Marateoti per prepararsi alla Processione, senza non prima aver visitato almeno una parte del mercato, le numerose bancarelle che affollavano tutta via Mandarini e sino alla Fontana Vecchia.

Quelli della Commissione, come erano chiamati dalla gente i componenti del Comitato di San Biagio, si recavano al Carro Funebre ad osservare se alla Colla si intravedeva la sagoma blu di un autobus: arrivano, arrivano era il grido gioioso che annunciava agli intenditori della piazza che il Santo sarebbe stato accompagnato in Processione dalla musica.

Dal postale scendevano circa quaranta persone, stanche e assonnate che parlavano un dialetto con cadenze pugliesi, vestiti con pantaloni neri e rigorosamente traslucidi per l’usura e camicie bianche spesso rattoppate, che la giacca della divisa, gallonata a mo’ di carabinieri, anch’essa nera, copriva facendo sparire ogni segno di vetustà. I più giovani cominciavano subito a soffiare nelle ance o nei bocchini per fare il labbro altri, invece, andavano alla ricerca del proprio strumento nel camion, utilizzato come server: spesso succedeva che ritardava ad arrivare e così la banda era dimezzata, mancando i bassi, la grancassa, i tamburi, i sax, ecc.

Quando, finalmente, tutto era in ordine, due colpi dati alla grancassa, sulla cui pelle era scritto il nome del complesso bandistico, erano il segnale di comporre le fila: tutti i musicanti si schieravano in ordine preciso, allineati e coperti; il capo-banda, con fare esperto, controllava l’esatta disposizione di tutti i componenti la banda, dopodichè pronunciava il titolo del brano da eseguire. A quel punto, tutti i musicanti sfogliavano il libretto con le partiture fino a trovare la marcia richiesta, lo sistemavano sullo strumento e con molta solerzia assumevano la posizione tipica dei musici, testa alta e gambe larghe per meglio bilanciare il peso, ed al cenno del capo-banda i quaranta strumenti insieme emettevano quel suono tipico della banda: l’allegria che trasmetteva era indicibile. Era la festa.

Quando ascolto le bande, ricordo sempre la prima volta che ho potuto vederla da vicino: era il 1953, avevo cinque anni, e mio padre, come sempre, faceva parte della Commissione. Mi portava dietro di lui, tenendomi per la mano, tra la gente del paese nel giorno di festa e in molti lo fermavano per pagare il debito contratto, l’offerta che quasi tutti i marateoti si impegnano a dare per i festeggiamenti di San Biagio. Improvvisamente mi sono ritrovato tra la banda che ha cominciato a suonare in Piazza dell’Impero (ora Piazza Vitolo e, dopo i “Fasti”, Largo Immacolata). Il suono improvviso mi ha spaventato e Papà, rassicurante, mi ha preso in braccio dicendomi: Non aver paura, questa marcia è Vita Pugliese. Senti come è bella? La faccio sempre suonare, ti fa sentire veramente di essere in festa! La voce calda e amorevole e la carezza rassicurante di mio padre, da quel momento hanno fatto scattare in me la passione per la musica e anche per la Banda, in particolare. Ancora oggi che ho superato abbondantemente il mezzo secolo di vita, ogni volta che ascolto il suono di una banda, il pensiero va a mio padre che rivedo con il quaderno in mano a segnare, seduto al tavolino, le offerte per la festa e a mettersi repentinamente in piedi quando la banda passava o suonava da fermo, perché, diceva, bisogna avere rispetto per chi suona e per la musica, perché questa è delle arti la più dolce e la più compresa da tutti.

Dopo aver eseguito il primo brano, la banda era accompagnata per le vie del paese dal mitico Peppino ‘ i Canicorso di GiovedìSanto al secolo Giuseppe Ciliberti, molto legato a mio padre, tanto che al suo matrimonio papà fu il Compare d’anello. Peppino, con fare molto autorevole, chiamava a raccolta i musicanti obbligandoli a seguirlo e li precedeva lungo le vie del paese: non gli interessava che brano suonassero, la sua preoccupazione era solamente che ‘a banda adda sunà (la banda deve suonare) qualsiasi marcia, orchestrata bene o male non importava, purché suonasse… Subì un intervento di tracheotomia e per parlare si aiutava con un amplificatore portatile che, cumpa Peppu, dato il Sangiovanni, chiamava microfono. Pietra miliare dei suoi interventi è: cancella cinquemila e scrivi ainu, riferendosi ad un certo Guida della Colla che aveva fatto segnare per la Festa la somma di cinquemila lire, poi convertita nell’offerta di un agnello e a mio padre, al tavolino, che curava la contabilità, sollecitava a cancellare dal quaderno l’offerta segnata di cinquemila lire e di sostituirla con la nuova offerta dell’agnello (ainu).

Alle ore dieci e trenta la banda era accompagnata alla Chiesa Madre perché dopo un poco avrebbe avuto inizio la Processione di San Biagio e qui nasceva il busillis: la banda doveva precedere la statua del Santo o seguirla e se la seguiva, precedeva le autorità o andava dietro di esse? Ancora oggi questo è motivo di contendere.

Penso che il sacrificio maggiore per un musicante sia suonare dietro una processione, non per la fatica fisica, che pure incide tanto, ma perché viene azzerata la professionalità e l’arte: oggi, bene o male, riescono pure a suonare brani che mettono in risalto la bravura e capacità, ma una volta, e parlo della mia infanzia, intonavano quasi esclusivamente inni sacri come Noi vogliam Dio, T’adoriam Ostia Divina e canti simili, appiattendo quella che è la musica delle bande. L’unica eccezione era nell’attraversamento del corso principale: veniva eseguito il brano migliore della loro concertazione che spesso era la marcia da l’Ernani, di Giuseppe Verdi, mostrando così la loro bravura dalla rullata dei tamburi agli squilli delle trombe!

Erano fermi in Piazza tutti quelli che non seguivano la Processione: disposti ai lati della strada aspettavano vedere sfilare tutti i partecipanti; al suono festante delle campane, apriva il corteo Pascalinu ‘u monacu o anche detto Pascalinu ‘i quattu cazzotti, che portava la croce, affiancato dal figlio Ginnarinu ‘u monacheddu o i quattro cazzotti, cireneo volontario, desideroso essere primo attore e mai rinfrancato; seguivano i ragazzi della colonia di Marina, poveri ragazzi del nostro entroterra sequestrati in quel collegio dal vago sapore di lager, da una tale Signora Grimaldi, super-elettrice e grande beneficiata dalla Democrazia Cristiana che aveva costruito, attiguo e comunicante con la Colonia, un albergo, il Marisdea: succedeva che i locali ed il vitto della colonia erano usufruiti dagli ospiti dell’hotel, mentre non avveniva mai il contrario…

La processione di San Biagio, intanto, era super diretta dal Vigile Urbano Biagio Pastorino, che al ritmo di forza, forza; avanti, avanti; jammu belli, jammu belli, invitava tutti all’ordine: quelli che sfilavano partecipando alla processione e gli osservatori ai bordi della strada; Pastorino non solo precedeva il corteo ma lo percorreva interamente ed in continuazione perché tutti mantenessero il posto assegnato. Dopo la Croce e i ragazzi della colonia di Marina sfilavano i ragazzi della colonia di Fiumicello: questi, rispetto agli sventurati di Marina erano come studenti in un College di Oxford; erano tantissimi e al termine della processione le loro insegnanti compravano a tutti un gelato, ricompensa negata dalla Grimaldi ai bambini di Marina.

Dopo le Colonie era la volta dell’Azione Cattolica, rigorosamente distinti tra maschi e femmine: guai la promiscuità, era peccato e Padre Antonio Amatuzio non avrebbe data l’assoluzione alla confessione… . I ragazzi più piccoli, che frequentavano la prima e seconda elementare, tesserati con l’Azione Cattolica erano chiamati Fiamme Bianche e precedevano gli iscritti in terza e quarta elementare, che erano le Fiamme Verdi e dopo quelli di quinta elementare e prima media che erano le Fiamme Rosse; nelle scuole medie si diventava, invece, Aspirante Junior e poi Senior, dopo il 14° anno d’età; stesso ordine era anche per le ragazze, che però proseguiva con le Donne di Azione Cattolica e le Zelatrici. Quest’ultime avevano una età indefinita: le più giovani, trentenni, sembravano asessuate, non un filo di trucco, non una pettinatura un poco appariscente, non un abito che potesse evidenziare un poco la femminilità, ma solamente un completo a giacca per le più spregiudicate, che non lasciava trasparire un centimetro di pelle ma le obbligava a sudare abbondantemente sotto il sole già caldo di maggio. Le Zelatrici più anziane, invece, seguivano la processione recitando il Rosario e intonando canti liturgici “da lutto”. Non era “bello” cantare un motivo allegro, perché nel canto si nascondeva il diavolo e Padre Amatuzio, il gran censore, era pronto a riprendere qualche intraprendente… Pure le ragazzine, però, dovevano seguire la Processione indossando maglie a maniche lunghe e gonne rigorosamente all’altezza dei polpacci onde evitare le ire funeste di P. Amatuzio, il terrore delle donne. Questi era un prete che vedeva il peccato ovunque: andare al cinema si rischiava la scomunica e chi organizzava una festicciola in casa ballando sotto gli occhi vigili dei genitori, azione questa di un peccatore folle, veniva additato pubblicamente in chiesa e, se fosse stata in uso, avrebbe meritato la gogna.

La Processione, intanto proseguiva con le rappresentanze dei ragazzi di tutte le scuole: elementari, medie, professionali, infermieri, puericultrici e magistrali.

Ogni gruppo veniva preceduto dalla bandiera e da un labaro.

L’aspettativa di tutti i ragazzi era il passaggio de i guagnuni di’ ‘i monache, che chiudevano la sfilata prima del Clero e della Statua del Santo. Prima di quest’ultime però, accompagnate dalle suore di Monte Calvario venivano le orfanelle o figli di indigenti dell’interno della Lucania che studiavano nell’Orfanotrofio dei Cappuccini, tutte ragazzine che frequentavano le scuole elementari. Invece I guagnuni di’i monache ovvero le ragazza del De Pino, erano le convittrici che studiavano all’Istituto Magistrale, età compresa tra 14 e 19 anni: era un rifiorire continuo di gioventù. Quanti amori sono nati solamente con gli sguardi! Incontri e sorrisi furtivi che valevano mille dichiarazioni d’amore; amori tenuti a freno dalla acredine delle suore e dalla cattiveria di una bigotta morale cristiana: riscontrare il peccato anche nell’amore di due giovani, cosa dolce e sublime, forse è segno di una mente malata! E noi, purtroppo, a Maratea di queste menti, dei sacerdoti Oblati, ne abbiamo avute molte… Vedevano il peccato ovunque, finanche nelle nostre secolari tradizioni che ci hanno fatto abbandonare e dimenticare. Il loro arrivo a Maratea è stata una iattura.

Queste bellezze, le Ragazze del De Pino, normalmente erano circa centotrenta e tutte erano elegantissime nella loro divisa blu fatta di gonna a pieghe, camicia bianca, gilé e mantellina. Molte erano belle e ambite dalla popolazione giovanile maschile però quelle più facili con cui parlare e avere i primi approcci erano, come sempre, le meno carine o, come con cattiveria erano definite, scorfani, facendo riferimento ad uno dei pesci più brutti. Era l’epoca delle frasi d’amore e spesso volavano bigliettini amorosi da una parte e dall’altra, passati con gli stratagemmi più vari e con la complicità delle studentesse marateote che frequentavano il Magistrale.

Passato il momento più profano della Processione, dietro le studentesse del De Pino, sempre anche queste scortate dalle suore di Monte Calvario, comparivano in Piazza i bambini più piccoli, vestiti da angioletti e quindi i chierichetti, il clero, sempre abbondante e finalmente la statua di San Biagio, portata a spalla dai famosi portatori che si tramandano con uno jus imperandi questa tradizione cui non compete. È un diritto abusivo di regole bislacche, senza alcuna memoria scritta o tradizione orale precisa ed indicativa, che alcune persone hanno interpretato ad uso proprio, dichiarando di avere titolo perché figli, o nipoti, o generi, o fratelli, o cugini o, ancora, vicini di casa e di aver avuto il camice come testimone di continuare la tradizione. Anche questo abuso è un retaggio della gestione cinquantennale dei Padri Oblati. Non esiste e non è concepibile che qualcuno possa avere dei diritti esclusivi su una res publica come il Simulacro di San Biagio: il Santo è di tutti e tutti hanno gli stesi diritti, maschi e femmine.

Immediatamente dopo la statua del Santo era il Sindaco, con la sciarpa tricolore, che sigillava l’autenticità del suo status, seguito dai consiglieri comunali, dai comandanti dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Marina, ecc.; i presidi e gli insegnanti; chi si spacciava per autorità e pensava di esserla, chi sognava di diventare autorità e …; chi non ricorda, Giacinto, il collocatore di Maratea, sempre tra gli ultimi a causa della forte miopia che gli impediva di vedere i gradini dei vicoli e, pure tra gli ultimi, il maresciallo della Dogana Di Costanzo, con i calli ai piedi che lo facevano soffrire tanto, impedendogli di camminare a passo normale; i vari Ufficiali postali scortati da Totò De Lutis e da Giacomino Labanca e da Vittorio Staltari; Giuanni ‘u guardabosco (Giovanni Faraco) guardia forestale, con la divisa di panno verde, armato di bandoliera e pistola; Ciccillo Fontana, segretario della DC e, dulcis in fundo, il meglio che offriva la Basilicata: Emilio Colombo, Michele Marotta e Venturino Picardi. Sicuramente le autorità avevano in considerazione di più i tre personaggi politici che il Santo in processione: quella era l’occasione per piatire finanziamenti pubblici.

Dietro le autorità doveva essere la banda musicale, ma questa, come ho scritto prima altalenava davanti o dietro, secondo la volontà del Parroco pro-tempore.

Ultimo, ma non per questo meno importante, anzi quello che contava di più nel rito religioso, era il popolo orante: donne e uomini, di tutti i ceti sociali, che cantavano il rosario di San Biagio con grande fede e passione e non fermandosi nemmeno al suono della banda. Ricordo una cantante, forse la più devota, la moglie di Biasi ‘i Pappuni, che con una voce stridula, acuta ed inconfondibile, cantava il Rosario, San Biasi miu gran Santu, per tutta la durata della Processione senza alcuna pausa.

Il ritorno nella Chiesa Madre di tutto il Corteo sanciva la fine della Festa Religiosa. Le autorità, tali e presunte, i Carabinieri in alta uniforme che avevano scortato la statua e i portatori passavano a rinfrancarsi al bar Avigliano a consumare l’aperitivo, offerto e pagato come sempre dal Comitato e con i soldi della Festa, così, anziché essere omaggiati i componenti del Comitato per il lavoro svolto, erano i beneficiari della festa a godere di un ulteriore privilegio…

Il pomeriggio del Sabato era riservato allo spettacolo. La banda, dopo il riposo in branda, cominciava ad esibirsi e andava tutto bene se il trattamento era stato consono! L’alloggio e di conseguenza il riposo in branda avveniva nelle scuole elementari, che per l’occasione erano requisite dal Comitato per far dormire la Banda. Il camion server trasportava oltre che gli strumenti anche gli effetti letterecci (brandine, coperte, ecc.) che i bidelli (così erano chiamati i facchini della banda) portavano nell’alloggio, dove era allestita anche la loro cucina da campo: se la logistica e la spesa (pasta,carne, pane, frutta, ecc.) prevista dal contratto, era di loro gradimento la serata concertistica era ottima altrimenti non eseguivano i brani che si richiedevano, adducendo scuse varie, come la indisposizione di un solista o la mancanza di qualche partitura che si era smarrita sul camion o di non aver bene concertato il brano, ecc.

Alle ore diciotto, i due tipici colpi di grancassa erano il segnale che tutti aspettavano, musici e cittadini, intenditori e profani, appassionati e curiosi: la banda cominciava a suonare.

Quasi sempre una delle prime marce sinfoniche da eseguire era: A TUBO. La bravura di tutti era messa a dura prova e in special modo dai clarini che occupavano le prime due file delle otto della banda. Al termine l’applauso di rito era immancabile e già cominciava il parlottare degli intenditori: l’ottavino non si sente, la tromba è attippata (era un ragazzo che faceva finta di suonare e portato solamente per far numero), il sax non ha fiato e così di seguito sino a sminuire tutti i musici. Non esisteva banda musicale approvata dai critici intenditori Marateoti, quasi tutti ex componenti della Banda di Maratea. Solamente loro erano musicisti.

Meno critico fra tutti era Sor Antonio, suonatore di clarino, che spesso apostrofava con epiteti scurrili, nei diverbi musicali, i suoi colleghi, invitandoli al silenzio: perché tanto voi non capite un c…

Altre marce da fermo e quindi al comando imperioso di Canicorso tutta la banda percorreva le vie del paese, dopo aver fatta la seconda pausa per il caffè offerto, naturalmente, dal Comitato, extra contratto (il primo caffè era offerto dopo la prima marcia che eseguivano al mattino). Ricordo che un anno, per la prima volta, tutti i partecipanti al Comitato, furono invitati dal proprietario del Miravalle, il povero Michele, per una cena il lunedì dopo la festa; Michele aveva aperto da qualche giorno il locale e gradiva, anche per pubblicità, avere ospite chi si prodigava tanto per una festa che interessava tutta la popolazione. Mentre erano a cena, in modo anonimo, furono avvisati i Carabinieri che il Comitato consumava i soldi della gente gozzovigliando! Ci fu anche un’inchiesta ben risolta e l’usanza della cena dopo la festa è cominciata e finita nello stesso anno.

Al termine della passeggiata musicale diretta da Canicorso, la banda era accompagnata alla Chiesa Madre perché eseguisse un inno sacro durante la Consacrazione, quindi ritornava in Piazza e cominciava il programma in orchestra, programmazione concordata con il Comitato.

Marcia d’apertura e quindi i classici della lirica, opere di Verdi, Rossini, Donizetti, ecc. . Gli ascoltatori all’inizio della serata erano tantissimi che andavano man mano scemando con l’avvicinarsi della mezza notte, orario di fine spettacolo.

Il gruppo più attento era sempre quello composto dagli ex musicanti: Ronzino, Pasqualino Vergine, Sor Antonio, Ciccantonio, Biasuccio e ZuPeppu. A loro nulla sfuggiva: la nota non tenuta a lungo o l’attacco anticipato o posticipato o il Maestro non chiamava gli strumenti. Lo spettacolo, in parte, lo facevano loro. Fischiettavano l’aria che la banda eseguiva e quando, per caso, i loro sguardi si incontravano immediatamente scattava l’osservazione negativa e critica: il più lesto a parlare e ad esprimere il giudizio veniva subito assecondato dall’altro che annuiva, con aria di gran critico musicale, e sorrideva quasi con commiserazione nei confronti dei poveri musicanti. Al termine di ogni brano e quando il maestro scendeva dal palco, i nostri critici musicali erano i primi ad avvicinarsi al maestro e a congratularsi per l’ottima interpretazione; naturalmente la stretta di mano andava a tutti i solisti e si congratulavano perché mai era stata data una interpretazione così calda in precedenza. A questo punto cominciava la sfilza dei ricordi di quel Tizio flicornino o di quel Caio baritono e così sino all’inizio del brano successivo. Poi ancora critiche e strette di mano fino alla fine.

Il momento clou era tra il primo ed il secondo tempo. Sul palco saliva il Sindaco e i componenti del Comitato a consegnare un mazzo di fiori al Maestro: applausi, Inno d’Italia e Inno del Piave sancivano un momento di gloria per tutti. Ai musicanti venivano offerti vassoi di dolci e bottiglie di liquore e il Cassiere del Comitato e i componenti più anziani, si appartavano con i dirigenti della Banda, Maestro e Capi Banda (capo amministrativo e capo musicale) per dare loro la giusta ricompensa pattuita e rigorosamente in contanti. Strette di mano, congratulazioni in abbondanza e prima del saluto definitivo veniva consegnata una busta a testa ai tre musicisti dirigenti con la regalia, prevista anche dal contratto.

A mezzanotte circa terminava lo spettacolo, con gran sollievo di tutto il Comitato, perché la parte più importante della Festa si era conclusa bene.

Si auguravano una buona notte per rivedersi all’indomani, seconda domenica di maggio, per portare San Biagio al Castello.

Ore sette e trenta della seconda Domenica di Maggio: la sveglia era fatta come sempre dal fuochista con i colpi scuri; alle otto le campane di tutto il paese annunciavano, quasi con tristezza, che la festa stava terminando e che San Biagio ritornava al Castello.

Da tutte le frazioni costiere e dalla campagna affluivano i fedeli per accompagnare San Biagio al Castello. Punto di ritrovo, naturalmente, era il piazzale della Chiesa Madre che si riempiva all’inverosimile alle 9,30, ora stabilita per la partenza della processione.

Durante la vestizione della Statua, che avveniva sempre in Chiesa, le campane suonavano a ripetizione e quel suono, ancora oggi, mi riporta indietro a quando piccolo…: avevo quattro anni ed ero stato colpito da una rarissima e grave malattia chiamata “porpora addominale”, il cui epilogo era il “passaggio a miglior vita”! Reduce, con i miei genitori da un viaggio della speranza a Napoli, siamo nel 1952, nella clinica pediatrica Auricchio, dove ero stato ricoverato per circa venti giorni e un tale dott. Ferola, le cui origini erano marateote, invitò mio padre a riportarmi a Maratea perché non sarei sopravvissuto al grave morbo. Era il 3 maggio, sabato, quando San Biagio va per la terra! Fino al sabato successivo, 10 maggio, giorno della processione del Santo, le mie condizioni erano stazionarie e si aggravarono il giorno seguente. Le campane suonavano a distesa e ancora oggi rivedo Mamma, dietro i vetri del balcone, inveire contro il Santo Taumaturgo: Oih San Bià, comi si ‘ngratu, ti ni vai e mi lassisi accussì ‘u uagnunu?, cu chi curaggiu mi lassisi? (oh San Biagio, come sei ingrato, te ne vai e mi lasci così il bambino? con quale coraggio mi lasci?). Avevo dolori lancinanti addominali e Mamma mi teneva in braccio, mentre in pianto, continuava a scagliarsi contro il Santo: mi addormento quasi immediatamente, un sonno lungo e profondo che dai miei è scambiato per coma profondo. Il giorno seguente, lunedì, mi sveglio, dopo oltre 24 ore, e chiedo di mangiare i maccaruni: ero guarito. Non ho mai più avuto sintomi della malattia. Miracolo o guarigione spontanea? … ma questa è un’altra storia … .

Mentre i portatori vestivano la Statua, la gente fuori della Chiesa si organizzava in gruppetti per fare la salita insieme. Immancabile la banda aspettava l’uscita dalla Chiesa della Statua che al cenno affannoso del rappresentante del Comitato intonava una marcia d’occasione. Erano momenti concitati: le persone si accalcavano intorno la Statua per essere in prima fila nella salita e urtavano gli strumenti dei musicisti impedendo a questi di suonare. Tra il suono assordante delle campane, la batteria di fuochi sparata vicino al serbatoio dell’acqua, il vociare della gente, il pianto dei bimbi spaventati dai botti e la marcia, purtroppo, mal suonata dalla banda regnava assoluto per qualche minuti il caos.

Man mano che la folla confluiva verso la stradina di Via Santicelli tutto si ricomponeva e tornava alla normalità mentre i portatori con la Statua restavano fermi ai piedi della scalinata aspettando che tutta la via fosse sgombra per fare lo strappo, così si diceva quando si faceva una salita corta e ripida. Arrivati al girone di Capo Casale la processione proseguiva a “ruota libera”: chi andava avanti, chi dietro, chi pregava e chi no, chi cantava la litania e chi parlava con l’amico, insomma una passeggiata come per una scampagnata…

Gli abbigliamenti erano molto dissimili: classico, sportivo, invernale, primaverile e man mano che si saliva, a secondo delle condizione climatiche e meteorologiche ci si vestiva di più o ci si spogliava. Negli ultimi anni l’abbigliamento dei più giovani, compresi i plus-cinquanta-sessantenni, si è orientato al genere sportivo-elegante-firmato: tutti con scarpette “ginniche” e tute multicolori, spesso comperate e indossate solo per l’occasione … …

A Santa Caterina i “portatori” si ricomponevano e ripigliavano il “governo” della Statua che era stata portata, nella strada sconnessa, da fedeli devoti.

Intanto, confluivano al Castello, in modo molto spontaneo, i cittadini di Massa e Brefaro, mentre quelli di Marina e Castrocucco, in processione devozionale, portavano la “cinta” preceduti dal suono di uno zampognaro, così come  lo stesso facevano quelli di Acquafredda e di Cersuta a cui si aggregavano buona parte quelli di Fiumicello; assenti, come sempre, i Portaioli, detti “saracini” per i loro comportamenti sempre atipici e asociali.

La banda, che intanto aveva lasciato la processione a Capo Casale, saliva con il pullman e si ritrovava a Santa Caterina pronta ad accogliere la il Santo.  

Lentamente, una moltitudine di persone saliva al Castello appressandosi sempre più alla Statua per arrivare tutti insieme al Piazzale del Castello dove il Parroco, con i sacri paramenti indossati, insieme al Sindaco, bardato di fascia tricolore e grande cero acceso, aspettavano l’arrivo di San Biagio, per rifare con la stessa sacralità e lo stesso sentimento la funzione svolta il giovedì precedente a Capo Casale.

Prima di mezzogiorno, come tradizione, la Statua di San Biagio arrivava al Castello: svestizione del Santo, marcia della banda, batteria di fuochi pirotecnici e processione sino in Chiesa. Seguiva la Santa Messa cantata che accompagnava all’organo il famoso Donnarumma, musicista, mentre la funzione religiosa era celebrata da Don Salvatore Cantisani, tanto amato dai giovani dell’epoca per i suoi comportamenti anticonformisti e oltranzisti. Entrambi venivano da Sapri, ospiti del Rettore della Basilica, Don Domenico Damiano, e si fermavano al Castello per tutto il periodo della Festa aiutando e collaborando con il Sacerdote di Maratea per alleviarlo dalle fatiche straordinarie. Immancabili erano i frizzi e lazzi che Don Salvatore e i giovani si scambiavano, anche durante le celebrazioni religiose: anche questa era una tradizione attesa ogni anno.

Spesso accadeva che al termine della funzione religiosa sgorgava la Manna, tanto attesa e invocata da tutti e immediatamente veniva issato il Palio fuori della Basilica per comunicare a tutti che San Biagio aveva fatto il miracolo. Ma anche questa è un’altra storia ...

Terminata la funzione religiosa e dopo che il Sindaco aveva consegnato la busta con l’offerta al Parroco del Castello, come la regolamentazione scritta secoli addietro imponeva, la Festa di San Biagio era da considerarsi terminata, almeno per la parte religiosa.

Frattanto, sempre al Castello, la Banda musicale si recava da Coccidorio, il vecchio ed ultimo cantiniere di Maratea Superiore, ed ogni musicante aveva un bicchiere di vino ed un tarallo che erano offerti da Don Domenico, mentre tantissima gente, centinaia dei persone, si recavano nei vari prati a mangiare quel che avevano portato da casa: era l’inizio della festa dei Marateoti e di tanta e tanta gente che veniva dalle Calabrie e dal Cilento, oltre che dal nostro entroterra Lucano. Sulle tovaglie stese a terra i migliori manicaretti erano poggiati e prelevati dalle ceste che le donne avevano portato con la cannista (cesta), con incedere orgoglioso, sulla testa tenendo tutto in equilibrio con l’ausilio della cruna, un grande muccaturu (foulard) arrotolato a forma di corona: pasta ‘mbuttita, brascioli e gliommareddi, zazicchi e taraddi musci, zupirsati e ova vudduti, virrinia e favi, cascavaddi e squacchiamadduni e poi finocchi, frutta e frutta secca e per dolci ‘i zirpuli. Il vino, naturalmente, era immancabile e se ne consumava a profusione …

Nel tardo pomeriggio tutti scendevano dal Castello perché il culmine della festa civile era in Piazza con il gran concerto della Banda Musicale o, come avviene da molti anni a questa parte, il concerto di una star della musica leggera e poi, a mezzanotte, alla Pietra del Sole si andava ad assistere all’accensione dei fuochi pirotecnici.

La prima volta che alla Banda fu preferito un cantante successe uno scandalo: una cantante gorgheggiava con fare malizioso una canzonetta dal titolo “La Lambretta” (siamo alla fine degli anni ’50) che significava una coppietta andava a fare una gita con questo nuovo e moderno mezzo di locomozione e a fine gita non erano più in due ma ritornavano in tre. Ci fu quasi una “scomunica” per il Comitato Festa e Padre Cerracchio si recò dal Vescovo Federico Pezzullo a chiedere che per almeno cinque anni a Maratea non dovevano più esibirsi orchestrine di musica leggera…

Nelle Omelie domenicali i Padri Oblati additavano come istigatori alla pornografia i componenti del Comitato e così il lunedì, dopo la seconda domenica di maggio, fu quasi una giornata di lutto a Maratea, con esposizione del Santissimo e Ora di Adorazione per pregare e farsi perdonare dal Signore lo scandalo che si era perpetrato. Un aiuto ai Cittadini fu dato dall’arrivo della settima tappa del 48° Giro d’Italia, il 21 maggio 1965: in piazza Buraglia si esibì l’orchestra del Maestro Pregadio con molti cantanti e con il finale del Quartetto Cetra, senza permessi della Curia…!

Ma tutti i lunedì seguenti la festa erano dedicati agli esperti di musica e di feste che analizzavano i brani musicali eseguiti e li paragonavano con le bande che avevano suonato nei paesi vicini.

Passata la festa venivano esposti in Chiesa i resoconti, con le entrate e le uscite: ora la legge sulla privacy impedisce queste pubblicazioni,

Siamo a metà maggio e il giorno 22 si festeggia Santa Rita, la santa degli impossibili.

Menuccia, al secolo Filomena Mordente, proprietaria del Tabacchino e negozio di alimentari, fedelissima e devota di Santa Rita, raccoglieva gli oboli per la festicciola della Santa e teneva sul banco del Negozio un quaderno sempre aperto e con una delicatezza e una straordinaria educazione ti sussurrava se volevi lasciare un’offerta per la festa e segnava sul quaderno il cognome e nome e la cifra che si offriva.

 (continua)

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