Il primo giorno del mese di febbraio, quando
nel paese cominciava il triduo in
onore di San Biagio, il Sindaco, il mio primo ricordo è solamente di
‘U Putistà,
Alla prima riunione del Comitato partecipavano,
quasi sempre, le stesse persone dell’anno precedente e
spesso, quando scarsa era l’affluenza degli aderenti, il Sindaco chiedeva la volontarietà dei consiglieri Comunali, specie di quelli eletti
nelle frazioni.
Ricordo i
giri, come in gergo vengono chiamate le questue,
che si effettuavano per il paese e che si organizzavano per le frazioni e la
valle: quattro o più componenti, a piedi, si recavano, per tre mesi, per tutte
le case di Maratea a piatire l’obolo per i festeggiamenti di San Biagio; c’era
chi preferiva andare ad Acquafredda, chi a Brefaro o chi per la Valle e già la
grossa difficoltà era creare il team perfetto per le varie località.
Il canovaccio del colloquio era standard quando
si bussava ad ogni casa:
Buongiorno;
Ah! sisi chiddi da’ Cummissiuni!? (Ah! voi siete quelli della Commissione!?)
Si;
Anè, chi festa facesi chist’annu?
(Scusate, che faste fate quest’anno?)
‘A solita; (La
solita festa)
E a cu facesi vinì sta’
vota? (E quale personaggio [dello
spettacolo] verrà quest’anno?)
Dipenditi dai soldi chi facemu;
(dipende dai soldi che incassiamo)
Aggiu capitu! (Ho capito!)
Beh, ch’amà
signà? (Allora
cosa segnamo?)
E mo’ non mi ni trovu soldi ‘ngoddu; sa’ chi ‘nc’è, signati quannu a l’annu passatu, ca
po vi ‘i vengu a purtà ‘nanzi u tavulinu o Sabutu o Dominica! (In questo momento non ho soldi addosso; è il
caso che segnate la stessa offerta dell’anno scorso,
che vi porterò al tavolino o il
Sabato della festa o il giorno dopo Domenica!)
E quannu è datu l’annu pasatu? (E quanto hai dato
l’anno scorso?)
E mo’ sacciu! … signa na decimila liri
ca’ po si pozzu vi davu n’ata ‘nzigghicedda!... (Non ricordo … segna circa diecimila lire, perché se ho la possibilità
vi darò una cosina in più!...)
Va bbo. E mo’ scusa. (Bene. Scusa e arrivederci)
Nenti.
Grazie a bbui. (Niente. Grazie a voi)
Così gli approcci nelle famiglie, con qualche
leggera variante dialettale nelle frazioni. Spesso a fine
serata il Comitato rientrava con la rubrica piena di nomi e con impegni
di offerta ma senza denaro contante: subiva anche mortificazioni da famiglie
che si nascondevano o che trattavano i Componenti con arroganza o alla stregua
di molestatori elemosinieri professionisti…
Dopo circa tre mesi di impegni
quasi diuturni e di infinite discussioni sulle scelte delle bande musicali, di apparatori (i fornitori di luminarie),
di fuochisti di giorno e di notte, di Predicatori e di tante altri particolari,
importanti per una buona riuscita della festa, si arrivava finalmente alla
stesura del manifesto, l’atto ufficiale che avvisava la cittadinanza di come si
sarebbe svolta
San
Biasi va’ pa’ terra: era l’inizio della Festa. Al Castello a mezzogiorno
si faceva
Oggi, la processione di quando San Biagio va per la terra ha anche la
partecipazione di una banda!
Mons.
Le quarantore erano la preparazione spirituale
alla Festa, che di fatto cominciava il Giovedì, quando
San Biagio scende dal Castello.
Alle nove, dopo la santa messa, i famosi portatori, si preparavano
per vestire
Perciò alla presenza dei due parroci e del
vescovo si stabilì che
Il confine tra le due Parrocchie era ni muri, dove
oggi viene fatta la benedizione al mare… Lì si spogliava il Santo e si
benediceva: in tempi recenti, dopo la costruzione della strada rotabile,
l’incontro con San Biagio avviene a Capo Casale e ni muri è rimasta la tradizione della benedizione, che dal Santo si
è spostata al mare!...
Appena terminata la vestizione del Santo al
Castello, al suono della Banda, i portatori cominciavano la marcia che li
portava a Capo Casale: tante le persone e sempre varie le condizioni climatiche
e la cosa che più emozionava erano le persone scalze, che per voto,
accompagnavano il Santo senza scarpe per la via accidentata.
La processione scendeva veloce pa’ via nova, la nuova strada creata e
voluta sempre da ‘u Putista
Appena il Santo era fuori
San Biasi, miu gran Santu
chi da Diu
si amatu tantu,
quanti grazi(e) da ‘u Celu vulimmu
a San Biasi ricurrimmu.
Oh Divinu Prutitturu,
chi ‘nCelu
fusti amatu,
Prutitturu nostu
e avvucatu:
comi nostu
Difinsuru,
fanci grazi(e) o gran Santuni!
Per dieci volte si cantava la preghiera, come un comune Rosario, poi si intonava un’invocazione alla
Madonna, quindi si ricominciava ancora con il Rosario:
Gloria a bVui
Pat(e)Eterno,
Gloria a bVui Figliu Divinu,
Gloria a bVui Spiritu Eternu
chi fuiti
e sempi sarà
pi tutta l’eternità.
tu sai li mei guai,
tu poi e si voi,
oh
A la bella mia
e a ‘u caru
mio Gesù
a bVui
davu lu cori miu
e po’ non u vogliu cchiu.
Questa era la preghiera alla Madonna che faceva
da stacco tra una posta di rosario a
San
‘Nanzi ‘a casa ‘i Iaselli cominciava la via vecchia, sconnessa e anche un po’ pericolosa; due persone
riuscivano appena a restare affiancati fino ni
muri, dopo la strada era un poco più larga ma
molto sconnessa fino ni grutti, ex cava di sabbia, e finalmente si faceva la
discesa che portava a Capo Casale. Una gran folla aspettava sempre con pazienza
Carabinieri in alta uniforme, completi di
sciabole, lanterna e pennacchio, aspettavano col Parroco, il Sindaco con la
fascia di primo cittadino, e tutte le autorità, civili e militari l’arrivo
della Statua: tra gli alberi si intravedeva
Deposta
Gli occhi lucidi di pianto degli astanti, facevano emozionare anche gli scettici.
Un momento di commozione generale, la marcia
della banda musicale e la batteria pirotecnica erano i segnali che
Il sorriso ritornava in tutti i presenti. E
mentre si ascoltavano i colpi sparati alla Stazione dai ferrovieri, il corteo
proseguiva nell’ufficialità dovuta, passando davanti al portone dei Calderano per giungere sino alla Chiesa Madre: esiste
ancora la documentazione che San Biagio,
finché il mondo esiste, così è
scritto in latino, deve passare per Capo Casale, perché la famiglia dei
Calderano aprì al dominio pubblico la strada di transito che era proprietà
privata.
Dal 1989, al secolare protocollo dello scoprimento della Statua, si è aggiunta
l’offerta delle Chiavi della Città al
Santo da parte del Sindaco, come a sancire ulteriormente
il totale affidamento del nostro paese a San Biagio.
Le campane di tutte le chiese di Maratea
squillavano a festa sino all’inizio della Messa cantata a tre preuti alla Chiesa Madre.
Grande Omelia e poi, finalmente si scendeva in
Piazza.
Tappa d’obbligo era da
Cominciavano ad arrivare le prime barracche e i
venditori di noccioline: chiddi ‘i Tropea, che
si stabilivano vicino al Campanile dell’Annunziata e ‘a figlia du Piparu
cu Tulimieri vicino all’Immacolata. Immancabili
erano i venditori di palloncini che cominciavano dal mattino a gonfiarli con
Nel tardo pomeriggio la passeggiata delle
famiglie era la prova generale della
festa.
Il venerdì era una giornata di pausa. Nel
pomeriggio il Comitato faceva l’ultimo giro
peri vicoli del paese e dai commercianti. Questi ultimi, la cui offerta era
sempre modesta, si lamentavano sempre
perché cu sti barracchi
chi venunu nui non guadagnamu nenti.
L’ultimo atto della sera era di controllare, in
Via Mandarini, i venditori ambulanti che erano arrivati e informare i propri
amici e parenti che c’erano: i paglietti
(un venditore di cappelli e di paglie); i
cazuni (pantaloni); i cozzi (casalinghi); i
ferri (ferramenta); i pezzi
(abbigliamento); i seggi (sedie); ‘ngiocularie
(oggetti vari e ninnoli); scicquagli (soprammobili).
In piazza dell’Impero, invece, si sistemava ‘u piattaru,
un certo signor Francesco Attimonelli della provincia
di Bari (Andria), con il suo fido aiutante Sebino. Attimonelli
teneva in Maratea un deposito, sotto la casa del Professor De
L’altra parte della piazza, invece era occupata
da chiddi d’‘i bambuli (quelli delle bambole), quattro signori
calabro-siculi, con vago accento toscano. Vendevano delle cartelline con una
serie di numeri. Terminata la vendita un bambino
estraeva un numero da un sacchetto e chi aveva acquistato la cartellina con il
numero vincente aveva diritto a scegliere una busta nel cui interno era
inserito un buono premio che poteva essere una bambola, una bicicletta, un
elettrodomestico o una somma irrisoria pari al prezzo della cartella. La trattativa era la busta: il gestore
offriva un oggetto in cambio della busta
con una aggiunta di danaro. Quasi tutti sceglievano la
busta per vincere la bicicletta o la
bambola, ma i quattro amici, con molta abilità, raramente facevano uscire
grossi premi: loro, infatti, giravano per le fiere per guadagnare qualche soldo
e non certamente per fare beneficenza … …
Stesso discorso era per la roulette il cui
posto era ‘nnanzi ‘a funtana: molti erano
i giocatori che puntavano sul tappeto verde con la speranza di favolosi
guadagni, ma gli unici a vincere erano i croupières, vestiti con giacche e
cravatte consumate dal tempo e con scarpe e pantaloni rattoppati, perché tanto
sotto il tavolo non si vedevano … …
Ni ottu adda essi ‘mmezu a chiazza, si
non si ruppiti ‘u pustali. Questa era la risposta che davano quelli della Commissione a chi chiedeva
della musica per
Così ricordo i capannelli di competenti ed esperti musicali che in piazza arzigogolavano sulla banda
scritturata e contrattata dal Comitato per la festa del Santo protettore San
Biagio. Le strade provinciali e statali per giungere a Maratea sono sempre le
stesse e ancora oggi molto
dissestate come allora. Gli autobus o postali,
come ci abituavano a chiamarli erano fatiscenti e spesso
si fermavano per guasti improvvisi per
cui molte volte i musicisti non arrivavano per
l’ora stabilita dal contratto, le ore
otto del Sabato.
I componenti del
Comitato, erano già in Piazza sin dai primi colpi
scuri che il fuochista sparava, con una precisione quasi cronometrica, alle
sette e trenta minuti, Arretu ‘a stradella
(Dietro
Quelli
della Commissione, come erano chiamati dalla gente
i componenti del Comitato di San Biagio, si recavano al Carro Funebre ad osservare se alla Colla si intravedeva la sagoma blu di un autobus: arrivano, arrivano era il grido gioioso
che annunciava agli intenditori della
piazza che il Santo sarebbe stato accompagnato in Processione dalla musica.
Dal postale
scendevano circa quaranta persone, stanche e assonnate che parlavano un
dialetto con cadenze pugliesi,
vestiti con pantaloni neri e rigorosamente traslucidi per l’usura e camicie
bianche spesso rattoppate, che la giacca della divisa, gallonata a mo’ di
carabinieri, anch’essa nera, copriva facendo sparire
ogni segno di vetustà. I più giovani cominciavano subito a soffiare nelle ance
o nei bocchini per fare il labbro altri,
invece, andavano alla ricerca del proprio strumento nel camion, utilizzato come
server: spesso succedeva che ritardava ad arrivare e così la banda era
dimezzata, mancando i bassi, la grancassa, i tamburi, i sax, ecc.
Quando, finalmente, tutto era in ordine, due
colpi dati alla grancassa, sulla cui pelle era scritto il nome del complesso bandistico, erano il segnale
di comporre le fila: tutti i musicanti si schieravano in ordine preciso, allineati
e coperti; il capo-banda, con fare esperto, controllava l’esatta disposizione
di tutti i componenti la banda, dopodichè pronunciava
il titolo del brano da eseguire. A quel punto, tutti i musicanti sfogliavano il
libretto con le partiture fino a trovare la marcia richiesta, lo sistemavano
sullo strumento e con molta solerzia assumevano la posizione tipica dei musici,
testa alta e gambe larghe per meglio bilanciare il peso, ed
al cenno del capo-banda i quaranta strumenti insieme emettevano quel suono
tipico della banda: l’allegria che trasmetteva era indicibile. Era la festa.
Quando ascolto le bande, ricordo sempre la
prima volta che ho potuto vederla da vicino: era il 1953, avevo cinque anni, e
mio padre, come sempre, faceva parte della Commissione.
Mi portava dietro di lui, tenendomi per la mano, tra la gente del paese nel
giorno di festa e in molti lo fermavano per pagare il debito contratto,
l’offerta che quasi tutti i marateoti si impegnano a
dare per i festeggiamenti di San Biagio. Improvvisamente mi sono ritrovato tra
la banda che ha cominciato a suonare in Piazza dell’Impero (ora Piazza Vitolo
e, dopo i “Fasti”, Largo Immacolata). Il suono improvviso mi ha spaventato e
Papà, rassicurante, mi ha preso in braccio dicendomi: Non aver paura, questa marcia è Vita Pugliese. Senti come
è bella? La faccio sempre suonare, ti fa
sentire veramente di essere in festa! La voce calda e amorevole e la
carezza rassicurante di mio padre, da quel momento hanno fatto scattare in me
la passione per la musica e anche per
Dopo aver eseguito il primo brano, la banda era
accompagnata per le vie del paese dal mitico Peppino ‘ i Canicorso di GiovedìSanto
al secolo Giuseppe Ciliberti, molto legato a mio
padre, tanto che al suo matrimonio papà fu il Compare d’anello. Peppino,
con fare molto autorevole, chiamava a raccolta i musicanti obbligandoli a
seguirlo e li precedeva lungo le vie del paese: non gli interessava che brano
suonassero, la sua preoccupazione era solamente che ‘a banda adda sunà
(la banda deve suonare) qualsiasi marcia, orchestrata
bene o male non importava, purché suonasse… Subì un intervento di tracheotomia
e per parlare si aiutava con un amplificatore portatile che, cumpa Peppu, dato
il Sangiovanni,
chiamava microfono. Pietra miliare dei suoi interventi è: cancella cinquemila e scrivi ainu, riferendosi ad
un certo Guida della Colla che aveva fatto segnare per
Alle ore dieci e trenta la banda era
accompagnata alla Chiesa Madre perché dopo un poco avrebbe avuto inizio
Penso che il sacrificio maggiore per un
musicante sia suonare dietro una processione, non per la fatica fisica, che
pure incide tanto, ma perché viene azzerata la professionalità
e l’arte: oggi, bene o male, riescono pure a suonare brani che mettono in risalto
la bravura e capacità, ma una volta, e parlo della mia infanzia, intonavano
quasi esclusivamente inni sacri come Noi vogliam Dio, T’adoriam Ostia Divina e canti simili,
appiattendo quella che è la musica delle bande. L’unica eccezione era
nell’attraversamento del corso principale: veniva
eseguito il brano migliore della loro concertazione che spesso era la marcia da
l’Ernani, di Giuseppe Verdi, mostrando così la loro bravura dalla rullata dei tamburi agli squilli delle
trombe!
Erano fermi in Piazza tutti quelli che non
seguivano
La processione di San Biagio, intanto, era super diretta dal Vigile Urbano Biagio
Pastorino, che al ritmo di forza, forza;
avanti, avanti; jammu belli, jammu
belli, invitava tutti all’ordine: quelli che sfilavano partecipando alla
processione e gli osservatori ai bordi della strada; Pastorino non solo
precedeva il corteo ma lo percorreva interamente ed in
continuazione perché tutti mantenessero il posto assegnato. Dopo
Dopo le Colonie era la volta dell’Azione
Cattolica, rigorosamente distinti tra maschi e femmine: guai la promiscuità, era peccato e
Ogni gruppo veniva
preceduto dalla bandiera e da un labaro.
L’aspettativa di tutti
i ragazzi era il passaggio de i guagnuni di’ ‘i monache, che chiudevano la sfilata
prima del Clero e della Statua del Santo. Prima di quest’ultime però,
accompagnate dalle suore di Monte Calvario venivano le
orfanelle o figli di indigenti dell’interno della Lucania che studiavano
nell’Orfanotrofio dei Cappuccini, tutte ragazzine che frequentavano le scuole
elementari. Invece I guagnuni
di’ ‘i monache ovvero le ragazza del De Pino,
erano le convittrici che studiavano all’Istituto Magistrale, età compresa tra
14 e 19 anni: era un rifiorire continuo di gioventù. Quanti amori sono nati
solamente con gli sguardi! Incontri e sorrisi furtivi che valevano mille dichiarazioni
d’amore; amori tenuti a freno dalla acredine delle
suore e dalla cattiveria di una bigotta morale cristiana: riscontrare il
peccato anche nell’amore di due giovani, cosa dolce e sublime, forse è segno di
una mente malata! E noi, purtroppo, a Maratea di queste menti, dei sacerdoti
Oblati, ne abbiamo avute molte… Vedevano il peccato ovunque, finanche nelle
nostre secolari tradizioni che ci hanno fatto abbandonare e dimenticare. Il
loro arrivo a Maratea è stata una iattura.
Queste bellezze,
le Ragazze del De Pino, normalmente erano circa centotrenta e tutte erano elegantissime
nella loro divisa blu fatta di gonna a pieghe, camicia bianca, gilé e
mantellina. Molte erano belle e ambite dalla popolazione giovanile maschile però quelle più facili con cui
parlare e avere i primi approcci erano, come sempre, le meno carine o, come con
cattiveria erano definite, scorfani,
facendo riferimento ad uno dei pesci più brutti. Era
l’epoca delle frasi d’amore e spesso volavano bigliettini amorosi da una parte
e dall’altra, passati con gli stratagemmi più vari e con la complicità delle studentesse
marateote che frequentavano il Magistrale.
Passato il momento più profano della
Processione, dietro le studentesse del De Pino, sempre anche queste scortate
dalle suore di Monte Calvario, comparivano in Piazza i bambini più piccoli,
vestiti da angioletti e quindi i chierichetti, il clero, sempre abbondante e
finalmente la statua di San Biagio, portata a spalla dai famosi portatori che
si tramandano con uno jus imperandi questa tradizione cui non compete. È
un diritto abusivo di regole bislacche, senza alcuna memoria scritta o
tradizione orale precisa ed indicativa, che alcune
persone hanno interpretato ad uso proprio, dichiarando di avere titolo perché
figli, o nipoti, o generi, o fratelli, o cugini o, ancora, vicini di casa e di
aver avuto il camice come testimone di continuare
Immediatamente dopo la statua del Santo era il
Sindaco, con la sciarpa tricolore, che sigillava l’autenticità del suo status, seguito dai consiglieri
comunali, dai comandanti dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Marina, ecc.; i
presidi e gli insegnanti; chi si spacciava per autorità e pensava di esserla,
chi sognava di diventare autorità e …; chi non ricorda, Giacinto, il
collocatore di Maratea, sempre tra gli ultimi a causa della forte miopia che
gli impediva di vedere i gradini dei vicoli e, pure tra gli ultimi, il maresciallo
della Dogana Di Costanzo, con i calli ai piedi che lo
facevano soffrire tanto, impedendogli di camminare a passo normale; i vari
Ufficiali postali scortati da Totò De Lutis e da Giacomino Labanca e da
Vittorio Staltari; Giuanni ‘u guardabosco (
Dietro le autorità doveva essere la banda
musicale, ma questa, come ho scritto prima altalenava
davanti o dietro, secondo la volontà del Parroco pro-tempore.
Ultimo, ma non per questo meno importante, anzi
quello che contava di più nel rito religioso, era il popolo orante: donne e
uomini, di tutti i ceti sociali, che cantavano il rosario di San Biagio con
grande fede e passione e non fermandosi nemmeno al suono della banda. Ricordo
una cantante, forse la più devota, la
moglie di Biasi ‘i Pappuni,
che con una voce stridula, acuta ed inconfondibile,
cantava il Rosario, San Biasi miu gran Santu, per tutta la durata della Processione
senza alcuna pausa.
Il ritorno nella Chiesa Madre di tutto il
Corteo sanciva la fine della Festa Religiosa. Le autorità, tali e presunte, i Carabinieri in alta uniforme che
avevano scortato la statua e i portatori passavano a rinfrancarsi al bar
Avigliano a consumare l’aperitivo, offerto e pagato come sempre dal Comitato e
con i soldi della Festa, così, anziché essere omaggiati
i componenti del Comitato per il lavoro svolto, erano i beneficiari della festa a godere di un ulteriore privilegio…
Il pomeriggio del Sabato era riservato allo
spettacolo. La banda, dopo il riposo in branda, cominciava ad
esibirsi e andava tutto bene se il trattamento
era stato consono! L’alloggio e di conseguenza il riposo in branda avveniva nelle scuole elementari, che per l’occasione erano requisite dal Comitato per far dormire
Alle ore diciotto, i due tipici colpi di
grancassa erano il segnale che tutti aspettavano, musici e cittadini,
intenditori e profani, appassionati e curiosi: la banda cominciava a suonare.
Quasi sempre una delle prime marce sinfoniche da eseguire
era: A TUBO. La bravura di tutti era messa a dura prova e in special modo dai
clarini che occupavano le prime due file delle otto della banda. Al termine
l’applauso di rito era immancabile e già cominciava il parlottare degli
intenditori: l’ottavino non si sente, la tromba è attippata (era un ragazzo che
faceva finta di suonare e portato solamente per far numero), il sax non ha
fiato e così di seguito sino a sminuire tutti i musici. Non esisteva banda musicale
approvata dai critici intenditori Marateoti, quasi tutti ex componenti
della Banda di Maratea. Solamente loro erano musicisti.
Meno critico fra tutti era Sor Antonio, suonatore di clarino, che spesso apostrofava con
epiteti scurrili, nei diverbi musicali, i suoi colleghi, invitandoli al silenzio: perché tanto voi non capite un c…
Altre marce da
fermo e quindi al comando imperioso di Canicorso tutta la banda percorreva le vie del paese, dopo aver fatta la seconda
pausa per il caffè offerto, naturalmente, dal Comitato, extra contratto (il
primo caffè era offerto dopo la prima marcia che eseguivano al mattino).
Ricordo che un anno, per la prima volta, tutti i partecipanti al Comitato, furono invitati dal proprietario del Miravalle, il povero
Michele, per una cena il lunedì dopo la festa; Michele aveva aperto da qualche
giorno il locale e gradiva, anche per pubblicità, avere ospite chi si prodigava
tanto per una festa che interessava tutta
Al termine della passeggiata musicale diretta
da Canicorso,
la banda era accompagnata alla Chiesa Madre perché eseguisse un inno sacro
durante
Marcia d’apertura e
quindi i classici della lirica, opere di Verdi, Rossini, Donizetti, ecc. . Gli ascoltatori all’inizio della serata
erano tantissimi che andavano man mano scemando con l’avvicinarsi della mezza
notte, orario di fine spettacolo.
Il gruppo più attento era sempre quello
composto dagli ex musicanti: Ronzino,
Pasqualino Vergine, Sor Antonio, Ciccantonio, Biasuccio e Zu’ Peppu. A loro nulla sfuggiva: la nota non tenuta a lungo o l’attacco anticipato o posticipato o il Maestro non chiamava gli strumenti. Lo spettacolo,
in parte, lo facevano loro. Fischiettavano l’aria che la banda eseguiva e
quando, per caso, i loro sguardi si incontravano
immediatamente scattava l’osservazione negativa e critica: il più lesto a
parlare e ad esprimere il giudizio veniva subito assecondato dall’altro che
annuiva, con aria di gran critico musicale, e sorrideva quasi con
commiserazione nei confronti dei poveri
musicanti. Al termine di ogni brano e quando il maestro scendeva dal palco, i
nostri critici musicali erano i primi ad avvicinarsi al maestro e a
congratularsi per l’ottima interpretazione; naturalmente la stretta di mano
andava a tutti i solisti e si congratulavano perché mai era stata data una interpretazione così calda in precedenza. A questo punto
cominciava la sfilza dei ricordi di quel Tizio flicornino
o di quel Caio baritono e così sino all’inizio del brano successivo. Poi ancora critiche e strette di mano fino alla fine.
Il momento clou era tra il primo ed il secondo tempo. Sul palco saliva il Sindaco e i componenti del Comitato a consegnare un mazzo di fiori al
Maestro: applausi, Inno d’Italia e Inno del Piave sancivano un momento di
gloria per tutti. Ai musicanti venivano offerti vassoi
di dolci e bottiglie di liquore e il Cassiere del Comitato e i componenti più
anziani, si appartavano con i dirigenti della Banda, Maestro e Capi Banda (capo
amministrativo e capo musicale) per dare loro la giusta ricompensa pattuita e
rigorosamente in contanti. Strette di mano, congratulazioni in abbondanza e
prima del saluto definitivo veniva consegnata una
busta a testa ai tre musicisti dirigenti con la regalia, prevista anche dal contratto.
A mezzanotte circa terminava lo spettacolo, con
gran sollievo di tutto il Comitato, perché la parte più importante della Festa
si era conclusa bene.
Si auguravano una
buona notte per rivedersi all’indomani, seconda domenica di maggio, per portare
San Biagio al Castello.
Ore sette e trenta della seconda Domenica di
Maggio: la sveglia era fatta come sempre dal fuochista con i colpi scuri; alle
otto le campane di tutto il paese annunciavano, quasi con tristezza, che la
festa stava terminando e che San Biagio ritornava al Castello.
Da tutte le frazioni costiere e dalla campagna
affluivano i fedeli per accompagnare San Biagio al Castello. Punto di ritrovo,
naturalmente, era il piazzale della Chiesa Madre che si riempiva
all’inverosimile alle 9,30, ora stabilita per la partenza della processione.
Durante la vestizione della Statua, che
avveniva sempre in Chiesa, le campane suonavano a ripetizione e quel suono,
ancora oggi, mi riporta indietro a quando piccolo…: avevo quattro anni ed ero
stato colpito da una rarissima e grave malattia chiamata “porpora addominale”,
il cui epilogo era il “passaggio a miglior vita”! Reduce, con i miei genitori
da un viaggio della speranza a Napoli, siamo nel 1952,
nella clinica pediatrica Auricchio, dove ero stato
ricoverato per circa venti giorni e un tale dott. Ferola, le cui origini erano
marateote, invitò mio padre a riportarmi a Maratea perché non sarei sopravvissuto
al grave morbo. Era il 3 maggio, sabato, quando San Biagio va per la terra! Fino al sabato
successivo, 10 maggio, giorno della processione del Santo, le mie condizioni
erano stazionarie e si aggravarono il giorno seguente. Le campane suonavano a distesa
e ancora oggi rivedo Mamma, dietro i vetri del balcone, inveire contro il Santo
Taumaturgo: Oih San Bià, comi si
‘ngratu, ti ni vai e mi lassisi
accussì ‘u uagnunu?, cu chi
curaggiu mi lassisi? (oh San Biagio, come sei ingrato, te ne vai e mi lasci così
il bambino? con quale coraggio mi lasci?). Avevo
dolori lancinanti addominali e Mamma mi teneva in braccio, mentre in pianto,
continuava a scagliarsi contro il Santo: mi addormento quasi immediatamente, un
sonno lungo e profondo che dai miei è scambiato per coma profondo. Il giorno seguente,
lunedì, mi sveglio, dopo oltre 24 ore, e chiedo di
mangiare i maccaruni:
ero guarito. Non ho mai più avuto sintomi della
malattia. Miracolo o guarigione spontanea? … ma questa è un’altra storia … .
Mentre i portatori vestivano
Man mano che la folla confluiva verso la
stradina di Via
Gli abbigliamenti erano molto dissimili: classico,
sportivo, invernale, primaverile e man mano che si saliva, a
secondo delle condizione climatiche e meteorologiche ci si vestiva di più o ci
si spogliava. Negli ultimi anni l’abbigliamento dei più giovani, compresi i plus-cinquanta-sessantenni, si è orientato al genere
sportivo-elegante-firmato: tutti con scarpette “ginniche” e tute multicolori,
spesso comperate e indossate solo per l’occasione … …
A Santa Caterina i “portatori” si ricomponevano
e ripigliavano il “governo” della Statua che era stata portata, nella strada
sconnessa, da fedeli devoti.
Intanto, confluivano al Castello, in modo molto
spontaneo, i cittadini di Massa e Brefaro, mentre quelli di
La banda, che intanto aveva lasciato la
processione a Capo Casale, saliva con il pullman e si ritrovava a Santa
Caterina pronta ad accogliere
Lentamente, una moltitudine di persone saliva
al Castello appressandosi sempre più alla Statua per arrivare tutti insieme al Piazzale del Castello dove il Parroco, con
i sacri paramenti indossati, insieme al Sindaco, bardato di fascia tricolore e
grande cero acceso, aspettavano l’arrivo di San Biagio, per rifare con la stessa
sacralità e lo stesso sentimento la funzione svolta il giovedì precedente a
Capo Casale.
Prima di mezzogiorno, come tradizione,
Spesso accadeva che al termine della funzione
religiosa sgorgava
Terminata la funzione religiosa e dopo che il
Sindaco aveva consegnato la busta con l’offerta al Parroco del Castello, come
la regolamentazione scritta secoli addietro imponeva,
Frattanto, sempre al Castello,
Nel tardo
pomeriggio tutti scendevano dal Castello perché il culmine della festa civile
era in Piazza con il gran concerto della Banda Musicale o, come avviene da
molti anni a questa parte, il concerto di una star della musica leggera e poi,
a mezzanotte, alla Pietra del Sole si andava ad assistere all’accensione dei
fuochi pirotecnici.
La prima volta che
alla Banda fu preferito un cantante successe uno scandalo: una cantante gorgheggiava
con fare malizioso una canzonetta dal titolo “La Lambretta” (siamo alla fine
degli anni ’50) che significava una coppietta andava a
fare una gita con questo nuovo e moderno mezzo di locomozione e a fine gita non
erano più in due ma ritornavano in tre. Ci fu quasi una “scomunica” per il
Comitato Festa e Padre Cerracchio si recò dal Vescovo
Federico Pezzullo a chiedere che per almeno cinque anni a Maratea non dovevano
più esibirsi orchestrine di musica leggera…
Nelle Omelie
domenicali i Padri Oblati additavano come istigatori alla pornografia i
componenti del Comitato e così il lunedì, dopo la seconda domenica di maggio,
fu quasi una giornata di lutto a Maratea, con esposizione del Santissimo e Ora
di Adorazione per pregare e farsi perdonare dal Signore lo scandalo che si era
perpetrato. Un aiuto ai Cittadini fu dato dall’arrivo della settima tappa del
48° Giro d’Italia, il 21 maggio 1965: in piazza Buraglia
si esibì l’orchestra del Maestro Pregadio con molti cantanti e con il finale
del Quartetto Cetra, senza permessi della Curia…!
Ma tutti i lunedì seguenti la festa erano dedicati agli esperti di musica e di
feste che analizzavano i brani musicali eseguiti e li paragonavano con le bande
che avevano suonato nei paesi vicini.
Passata la festa venivano esposti in Chiesa i
resoconti, con le entrate e le uscite: ora la legge sulla privacy impedisce
queste pubblicazioni,
Siamo a metà maggio
e il giorno 22 si festeggia Santa Rita, la santa degli
impossibili.
Menuccia, al secolo
Filomena Mordente, proprietaria del Tabacchino e negozio di alimentari,
fedelissima e devota di Santa Rita, raccoglieva gli oboli per la festicciola
della Santa e teneva sul banco del Negozio un quaderno sempre aperto e con una
delicatezza e una straordinaria educazione ti sussurrava se volevi lasciare un’offerta
per la festa e segnava sul quaderno il cognome e nome e la cifra che si
offriva.