Il Cardinal Casimiro Gennari nel suo e
oltre il suo tempo
I
momenti di riflessione sul Gennari, con il coinvolgimento di insigni
uomini di chiesa e di cultura, non sono certo mancati nel corso di questo primo
secolo dalla morte. E sono stati tutti, a Roma, come a
Conversano, a Palmi, come a Maratea, particolarmente interessanti e
culturalmente proficui.
E,
tuttavia, se una ulteriore riflessione non è un mero
esercizio retorico di più o meno paludata liturgia celebrativa, semmai
sollecitata da quella ossessione aritmetica delle ricorrenze, contro cui si
levava l’avvertimento di quel grande maestro di filologia,che è stato
Gianfranco Contini, ma è, piuttosto, l’occasione di più approfondita ricerca,
atta a colmare le pur sempre presenti lacune o ad integrare e addirittura
modificare interpretazioni e giudizi e per essi la stessa storia e allora
promuoverla è un obbligo di cultura certamente cogente.
Ma
accanto a siffatto obbligo altro se ne impone e questo non meno rilevante
giacché è di ordine civile e morale. Mi riferisco al
dovere, appunto, di far memoria del nostro passato e non certo per dare sfogo a
quella sorta di nostalgia, che pur ci appartiene – nell’ineludibile rinvio al
“De Pulchro” di Plotino -
quanto piuttosto per offrire anzitutto ai giovani riferimenti
sicuri ed esempi validi specie in un tempo, come il nostro, in cui i
riferimenti si dissolvono in una malintesa globalizzazione, che nella cieca
massificazione cancella peculiarità e autonomia e gli esempi si sviliscono
nell’assenza di valori e di ideali nell’accattivante volgarità cui indulge
l’egemonia delle mode; esempi e riferimenti necessari ed urgenti, si,
soprattutto oggi, in cui, come avrebbe detto Platone, l’eccesso della libertà
ubriaca le menti e i cuori e conduce alla più assurda tirannide. Ma v’è di più:
è necessario riflettere – ed i giovani anzitutto – che la memoria
non è solo la facoltà di conservare esperienze passate, quanto la
sostanza stessa della nostra identità e che senza memoria il presente non ha
senso, il futuro non ha ragione.
E’
perciò che abbiamo promosso ed attuiamo ancora un evento come questo, nel vivo
convincimento di far cosa bella e buona, soprattutto perché ha per destinatari,
anzi per attori, i giovani.
Ne
consegue che l’introduzione a questo incontro – che mi
si è voluto affidare lungi dal porsi
quale incipit di un panegirico, che per l’eminenza del personaggio da ricordare non potrebbe che esser solenne,
vuole costituire, piuttosto, la responsabile provocazione ad un’ulteriore
riflessione su un Uomo, di cui tanto resta ancora da sapere e far sapere,
cercando di individuare nel tempo e nel luogo in cui visse quegli elementi,
dati e ragioni che possono concorrere a far meglio conoscere la sua
personalità, così complessa e straordinaria sì da dare alla sua vita, per
l’eccellenza delle virtù civili e morali praticate, un carattere di
eccezionalità ed alla sua complessiva testimonianza umana un significato di
esemplarità luminosa.
Muoviamo,
dunque, dallo spazio e dal tempo, ovvero da quegli “a
priori” da cui - come avverte Kant - non può prescindere la conoscenza. È bene,
dunque, riflettere sull’ambiente in cui operò e sul tempo in cui visse,
dilatando la microstoria di un luogo e di una esistenza
nella macrostoria d’Italia e d’Europa e, viceversa, muovendo dalla grande storia, ahimè quasi
sempre “evenemenziale”, per approdare alla piccola storia, quella locale e
persino del quotidiano, che la storia ufficiale sovente sdegnosamente trascura.
Se i
fattori formativi dell’uomo – come insegna la migliore pedagogia – sono
l’ambiente, la società, la scuola e la famiglia, è doveroso, per meglio
conoscere il personaggio, muovere appunto dalla più approfondita conoscenza di
tale contesto.
Quale,
dunque, l’ambiente, ovvero, lo scenario per così dire mondiale e
locale del suo tempo?
La sua fu
certo un’epoca straordinariamente intensa, contrassegnata soprattutto dalla
prevalenza delle idee sui fatti. Quasi sempre la
storia risulta determinata dagli incontri e dagli scontri di interessi
dinastici o nazionalistici, dall’avidità o dall’avarizia dei reggitori, prima
ancora che dei popoli, in cui è rilevante, se pur non esclusiva (come avrebbe
invece pensato Marx) la categoria economica.
Questo è,
invece, il tempo dei princìpi più che dei principi, delle idee più che delle
ideologie, dei valori più che degli interessi, che affonda le radici in quella innovativa corrente di pensiero, che è l’illuminismo
e che, nata in Inghilterra (Newton), si diffonde in Germania (Wolf) e si
afferma in Francia (Montesquieu, Condorcet, Rousseau), in cui trova la sua
teorizzazione ed il suo organo nell’Enciclopedia, i suoi profeti in D’Alambert,
Voltaire e Diderot ed il suo
propagandista in Napoleone. Giungerà in Italia (Beccaria, Romagnosi,
Gioia), anche se pur tardo e stemperato. La fede che predica, si sa, è nella
ragione che illumina la mente, sgombrandola dalle credenze religiose e dai
pregiudizi storici.
E questo è
anche il tempo della libertà degli individui e dell’indipendenza dei popoli da
cui discendono la solenne Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo,
Anche il
Regno di Napoli vive una stagione di evoluzione profonda non solo nella
politica, ma, anche, nella cultura, nell’arte, nel diritto e nell’economia. È
il tempo di Carlo di Borbone, che nel quarto di secolo del suo regno
(1734-1759), grazie anche al contributo innovativo di ministri illuminati,
quale il Tanucci, avvia un radicale processo di modernizzazione della struttura
stessa dello Stato e del sistema produttivo, che caratterizzerà, anche, il
primo ventennio di Ferdinando IV e che lascerà segni importanti, quali la prima
ferrovia della penisola, la più moderna industria estrattiva e manifatturiera,
il più qualificato artigianato del tessile, della ceramica e
dell’ebanisteria, gli scavi di
Pompei, Ercolano, Oplontis e Paestum, il
Teatro San Carlo, l’Ospizio dei poveri,
Ed anche
la nostra Maratea assume in tal contesto e come “Città libera”, ovvero mai
infeudata (quale è stata ininterrottamente da Carlo d’Angiò), un particolare
rilievo.
Val la
pena di rileggere quel documento fondamentale, voluto appunto da Carlo di
Borbone, che è la “Descrizione delle Province di Basilicata per ordine del Re”,
di cui fu incaricato da Bernardo Tanucci, il 19 aprile 1735, Rodrigo M.
Gaudioso, che, per Maratea, si avvalse della collaborazione del sindaco
Clemente M. Lombardi e dei signori Nicola Taranto e Alessandro di Luca. Dalla
stessa si apprende che Maratea era Capo Dipartimento, ovvero coordinava una
trentina di Comuni tra cui Lauria e Lagonegro e che era culturalmente elevata,
non avendo analfabeti tra gli amministratori e registrando “l’inclinazione
della gente alle lettere”; produceva oli, ortaggi, vini, grano e formaggi;
aveva un porto attivo, con pesca abbondante ed un traffico consistente,
costituendo il mare pressoché l’unica via di comunicazione e contava
sul suo territorio monumenti
importanti come il Castello e il Tempio di San Biagio, numerose Chiese, tre Conventi di frati e uno
di suore.
Dal
“Dizionario geografico - istorico del Regno di Napoli” del Sacco (1796) e dal
“Dizionario geografico - ragionato del Regno di Napoli” del Giustiniani (1802),
il quadro della realtà marateota nel ‘700 si arricchisce di ulteriori elementi
e così sappiamo dell’intensa vita culturale grazie, soprattutto alla presenza
dei frati Minori, Cappuccini e Minimi e delle religiose Visitantine, del
risveglio artistico, che crea nuove chiese, rivisitando di tardo barocco le
tante già esistenti; dei traffici e dei negozi, con fondaci anche a Napoli (i
“casadogli”) donde i marateoti vengono paragonati agli antichi amalfitani;
della febbrile attività artigianale nella lavorazione della seta, nella concia
delle pelli, nella produzione di calze e indumenti in lino, lana, canapa e
cotone; nella lavorazione del rame e dell’argento, con emigrazione appunto di
calderari ed argentieri in Spagna, Inghilterra, Belgio, Francia e Germania;
nella produzione delle corde vegetali e nell’agricoltura, ove si distinguono le
donne. Sappiamo, altresì, dell’esistenza di un Ospedale, fondato nel 1734,
soprattutto per i forestieri, dal benefattore Giovanni De Lieto; della presenza di ben sette Confraternite laico -
religiose, praticanti tra loro il mutuo soccorso e di un numeroso clero,
sostenuto dal sistema della cosiddetta “chiesa ricettizia”.
Le idee
liberali, che si diffondono da Napoli, incontestabile capitale di cultura,
trovano sul territorio fedeli seguaci proprio nella famiglia del Cardinale,
come in quelle del Sindaco Riscio e del Parroco Alitto. Il nonno del Nostro,
don Casimiro, è capo della vendita carbonara e con il fratello Giovanbattista è
tra i fautori della sfortunata Repubblica Partenopea, breve primavera della
democrazia, che avrà il contributo di sangue anche di un illustre lucano, il
costituzionalista Mario Pagano di Brienza.
E Maratea,
soprattutto grazie a Casimiro e Gianbattista Gennari, potrà elevare l’albero
della libertà ed erigersi in Municipio Repubblicano.
Ma la
vittoria del Sanfedismo del Cardinale Rufo riconsegna Napoli al Borbone e alla
sua feroce repressione, da cui lo stesso Rufo prenderà le distanze e anche
Maratea ne subirà gli effetti ad opera delle orde del brigante Rocco Stoduti
della banda di “Fra diavolo”.
Nel 1805
Ferdinando IV, re di Napoli, ratifica un trattato con
Maratea,
sia per essere interamente fortificata e sia
per la sua collocazione geografica si trova ad assumere una posizione
strategica di estremo interesse.
I
Francesi, sotto il comando del Generale Massena, avanzano verso
Il 7 marzo
1806, invasa dal Colonnello Rematten, cade Lagonegro con grave perdita di vite
umane.
L’8 agosto
il Generale Gardanne sventra e atterra Lauria Superiore, mentre il Generale
Ventimille incendia Lauria Inferiore. E mentre arde la “fornace di Lauria”,
cadono Pisciotta, Camerota e buona parte del Cilento, non senza spargimento di
sangue.
La nostra
città, come noto, è articolata in due Municipi: Maratea superiore o Castello e
Maratea inferiore o Borgo. Il Borgo ha Gennaro Riscio, che è stato capo della
Municipalità repubblicana, l’arciprete don Giuseppe Alitto, i fratelli
Casimiro e Giovanbattista Gennari ed i rispettivi figli, padre Giambattista
Basile, francescano e fra Angelo d’Albi, paolotto, tutti liberali; ma vi sono
anche i filoborbonici, quali Pietro M.
Aloise, Gaetano Siciliano e Biase Ginnari, che, al ritorno del Borbone,avevano
abbattuto l’Albero della libertà.
E filoborbonico è il Castello, con la presenza del Colonnello
Alessandro Mandarini, Vice Presidente della Basilicata e del Rettore del
Santuario don Carmine Iannini (il colto autore del manoscritto di “San Biase e
di Maratea” – 1835 - che sarà pubblicato nel 1985 per interessamento del
sindaco Fernando Sisinni), che proviene da Napoli e mostra fedeltà alla Corona.
Il Borgo ha accolto amichevolmente i
francesi, che si sono insediati, con il generale Lamarque e il suo Stato
Maggiore al Monastero. Il Castello, dove si sono rifugiati i filoborbonici del
Cilento (da Camerota, Celle, etc.) si prepara ad una dura resistenza. Nella
cittadella fortificata il Colonnello
Alessandro Mandarini, dopo aver lasciato la base militare dell’Isola di Dino,
organizza e dirige le operazioni militari con gli ufficiali Studati, Falsetti,
Guariglia, Necco e Pianese, contro i francesi, il cui esercito, ingrossato
dalla truppe del Colonnello Lecchi, sferra da tre postazioni un attacco tanto
violento da ridurre i macerie mura, case e chiese (come si può ancora osservare), fino a
costringere il Mandarini alla resa. E il 10 dicembre 1806, nel pianoro del
Monastero ai coraggiosi e sfortunati difensori del Castello non resta che
l’onore delle armi. Il Colonnello Mandarini, con alcuni seguaci, raggiungerà a
Palermo, Ferdinando IV, fuggiasco da Napoli,che, una volta tornato sul trono,
onorerà il colonnello marateota di alti incarichi in Calabria, ove,a San
Lucido, chiuderà nel 1820 la sua esistenza.
Nel
decennio francese 1806-1815 nel regno guidato prima da Giuseppe Bonaparte e poi
Gioacchino Murat, spira certamente un’aura più democratica: vi si decreta la
fine del feudalesimo e vi si applica la normativa napoleonica, decisamente più
organica e moderna.
Ma Maratea, che almeno al Castello ha costituito
una rilevante barriera all’avanzata francese, viene in un certo senso punita.
Oltre l’unificazione dei due Municipi in un solo Comune, conseguente peraltro
alla distruzione del Castello, essa perde lo “status” di Città libera, con
tutte le prerogative ed i privilegi connessi. E il Dipartimento, per cui era a
capo – come detto - di una trentina di Comuni, viene trasferito a Trecchina.
Peraltro, la soppressione degli Ordini e delle Congregazioni religiosi,
ordinata dal Murat, con l’incorporamento dei rispettivi beni, porta alla
chiusura dei tre conventi maschili (si salva quello delle Visitantine, ritenuto
dai francesi utile per l’educazione) e alla conseguente dispersione del
patrimonio culturale, accumulatosi nel corso dei secoli e tutto ciò non senza
grave nocumento alla vita sociale e civile.
Possiamo
immaginare il disorientamento di uomini di pura fede liberale, ma anche di
radicata formazione cattolica, a partire dalla Famiglia Gennari.
Quando,
poi, l’astro di Napoleone, dopo Waterloo, si eclissa definitivamente e col
Congresso di Vienna (1815) i sovrani spodestati recuperano i loro troni, anche
Ferdinando IV torna a Napoli, ove restaura
il regime antidemocratico, che caratterizzerà fino al dispotismo anche
il regno dei suoi successori Francesco I, Ferdinando II e Francesco II (il
quale ultimo, tuttavia, nel brevissimo tempo che gli è dato regnare, mostrerà
più umane attitudini di governo). E’ vero, il Borbone, incalzato da movimenti
indipendentisti concede
Nel
corso dei moti, che dal 1820-21 ardono
in Spagna, Grecia e Italia (Piemonte, Romagna, Campania), Nicola Gennari viene
arrestato(1824). Nel giugno 1828 scoppia nel Cilento una fiera sommossa,
organizzata dal canonico Antonio Maria De Luca, che è soffocata nel sangue, mentre il villaggio
di Bosco, da cui era partita la rivolta, è dato alle fiamme. Il De Luca, per
placare la tragica reazione borbonica eroicamente si costituisce. Viene
giustiziato a Salerno, insieme al nipote Giovanni, sacerdote anche lui. L’altro
suo nipote, padre Carlo Guida da Celle, Guardiano del Convento dei Cappuccini
di Maratea, solo perché sospettato di cospirazione, dopo essere stato
sconsacrato dal Vescovo di Policastro, il filoborbonico Laudisio, viene
fucilato di fronte al suo Convento (12 agosto 1828). Ha appena 29 anni.
In tali frangenti
il 27 Dicembre 1839 nasce da Nicola Gennari e Donna Gaetana Crispino Casimiro il futuro Cardinale: è il sesto
figlio dopo cinque sorelle. A Napoli regna Ferdinando II e Pontefice è Gregorio
XVI (Cappellari), uomo mite e amante degli studi.
Intanto il
movimento liberale conquista vieppiù gli animi dei cittadini, tra cui non pochi
uomini di Chiesa. Peraltro, il 16 giugno 1846 ascende al Soglio di Pietro, col
nome di Pio IX, Giovanni M. Mastai Ferretti, il cui pontificato durerà per
oltre 31 anni. Viene dalla Romagna, patria della libertà e da una famiglia
nobile e liberale. I suoi primi atti costituiscono segni inequivocabili di
democrazia: concede l’amnistia politica, consente la libertà di stampa, emana
È
immaginabile la gioia di quei cattolici liberali, quali i Gennari, nel
constatare che è stato finalmente infranto l’asse “trono-altare” e che l’esser
liberale non significa non esser cristiano.
Ma quando
nel 1848 scoppia la prima guerra di indipendenza contro l’Austria, il papa, che
pur aveva mandato le sue truppe a presidiare i confini del suo Stato, ritira il
suo esercito, dichiarando di non potersi associare alla guerra, stante la sua
missione religiosa di padre di tutte le genti dell’Orbe cattolica. Ed ha
ragione, ma grande è la delusione di quanti hanno addirittura sognato per
l’Italia una Confederazione di Stati liberi sotto la guida del pontefice,tanto
più che la massoneria, sempre più anticlericale, alimenta l’avversione alla
Chiesa, gridando al tradimento.
Tornando
alla nostra terra un altro evento segna la storia di quell’ anno. Costabile
Carducci, con altri suoi amici, tra cui Raffaele Gennari, dopo aver partecipato
alla citata sommossa del Cilento, si pone a capo dei moti che interessano la
regione, fino ad ottenere
Don Nicola
Gennari, che in quel tempo riveste
l’incarico di Comandante della Guardia,
dopo essere stato sindaco di Maratea negli anni 1832-34 e dopo aver
prestato servizio alla Dogana dal 1842, viene accusato di aver agevolato la
fuga dei superstiti, tra cui il fratello Raffaele. Da quel momento don Nicola
sarà ancor più sorvegliato dalla polizia, che gli rende sempre più difficile
l’esercizio della professione forense e lo trasferisce a Moliterno. Ma la
giustizia borbonica si accanisce soprattutto sul suddetto fratello, il quale,
dopo aver arringato la folla in nome della Libertà, nel Teatro di Maratea, viene arrestato e condannato a morte
(condanna poi convertita in 24 anni di lavori forzati, ridotti nel
Intanto,
nel 1849, si è instaurata
Nello
svolgersi di tali drammatici eventi, che certamente portano grave turbamento
nella famiglia Gennari, il Nostro, appena adolescente, si avvia agli studi
secondari, trasferendosi a Salerno (1851), ove frequenta il Regio Liceo e il
Real Collegio Picentino di San Luigi (tenuto dai Gesuiti), meritando, per
l’eccellenza scolastica e le doti morali il premio detto “Giglio d’oro”. Nel
1857 passa a Napoli per studiare presso il Collegio dei padri Gesuiti, annesso
alla Chiesa del Gesù Vecchio. Il 17 giugno 1860 il giovane Gennari professa i
voti minori e prende l’abito ecclesiastico. È l’anno della spedizione dei
Mille. Il 3 settembre di quell’anno Garibaldi, vittorioso sul Borbone, sosta a
Maratea, nella casa baronale dei Labanchi alla Secca di Castrocucco) da dove si
imbarca per Sapri - il cui nome basta a rievocare il sacrificio di Carlo
Pisacane. Raffaele Gennari, rientrato finalmente libero nella nostra città, vi
promuove la costituzione di una Giunta, ma, impossibilitato da una infermità di
seguire il “Liberatore”, gli invia il figlio quindicenne Casimiro, restituito
alla famiglia dal serraglio. E con Casimiro è un altro ragazzo di Maratea. Si
chiama Carlo Luigi Mazzei Lieto, nato a Capocasale il 29 dicembre 1844 da
Pietro e Rosanna Barone. Entrambi si arruolano nelle Camice rosse e faranno
parte dei Mille. Carlo morirà da eroe nei pressi di Maddaloni il 1° ottobre di
quell’anno. E Maratea lo ricorderà intitolandogli la via che lambisce la sua
casa di Capocasale.
Tre anni
dopo, il Nostro riceve la consacrazione sacerdotale a Cosenza, appartenendo
allora la nostra comunità alla diocesi di Cassano allo Ionio e dopo aver
celebrato la prima messa a Paola, dov’è trattenuto da una tempesta di mare,
raggiunge Maratea, ove, si fermerà per ben 18 anni.
È da notare
subito che la formazione del giovane Gennari è curata dai Gesuiti,
Merita,
altresì, di essere rilevato che tale formazione avviene fuori del seminario e
perciò in ambiente laico, il che significa non poco per la verifica della
vocazione religiosa, certamente più esposta alle prove della mondanità, ma,
anche, a quelle istanze socio-politiche, che innervano la vita civile del
tempo.
È anche da
considerare, per quanto riguarda il “corsus studiorum”, che la soppressione
della Facoltà di Scienze Sacre, disposta dal neo Stato italiano non gli
consente il conseguimento della laurea e che tuttavia l’approfondimento di
studi severi ancora presso i Gesuiti, da esterno e poi da autodidatta, terrà i
suoi scritti importanti, scevri da ogni formalismo accademico.
A Maratea
il Gennari, come è stato scritto, è sacerdote esemplare, apostolo infaticabile,
studioso attento, da tutti ammirato per l’abnegazione, l’edificazione e la
carità e qui fonda, il 31 marzo 1876, l’importante organo di informazione della
normativa e degli atti della Santa Sede, col nome di Monitore Ecclesiastico
(mutuando forse questo titolo da un importante giornale napoletano del decennio
francese).
Dal
piccolo paese il Monitore, che colmerà una grave lacuna nel campo delle scienze
e del diritto canonici, ha una larghissima diffusione ben oltre l’Italia,
facendo conoscere questo giovane prete, che sarà subito stimato, non solo per
la solida dottrina, ma anche per le forti doti di equilibrio, di saggezza e conoscenza e discernimento delle
istanze e delle novità di un’epoca in continua evoluzione. E il Monitore, che
persegue il fine della formazione attraverso l’informazione, accredita sempre
più il Gennari quale maestro di vita e, grazie anche alla accessibile semantica
adottata , quale esperto della comunicazione ante litteram.
Non deve
perciò sorprendere che un papa colto ed aperto come Leone XIII (l’autore, tra
l’altro della “Rerum novarum”), come già i vescovi di Policastro, Mons. Cione e
Conversano Mons. Basile, abbia profonde ragioni per apprezzarne la dottrina e
lo zelo, sicché nel 1881 lo nomina Vescovo di Conversano, nel 1895 lo chiama a
Roma quale Assessore del Santo Uffizio, nel 1897 gli conferisce il titolo di
Arcivescovo di Lepanto e nel 1901 lo eleva alla dignità di Cardinale di Santa
Romana Chiesa.
La biografia
e la bibliografia di Casimiro Gennari sono piuttosto note e non sta a me
rievocarle, tanto più che gli illustri Relatori di questo convegno sono
incaricati di evidenziarne la figura (e la letteratura) soprattutto quale
Pastore e Giurista.
Abbiamo in
precedenza insistito sulle peculiarità del suo tempo onde comprenderne meglio
la storia e la statura. E tra i fattori formativi abbiamo citato la famiglia,
che fu certamente nobile e antica. Sappiamo già di un don Francesco Gennari
attivo nel XIV secolo e di non pochi personaggi noti per la cultura e la
religione, tra cui il Vescovo Onofrio, morto nel 1805. E qui ci piacerebbe
soffermarci sulla mamma del Cardinale, donna Gaetana Crispino, di famiglia
religiosissima (ricordiamo il parroco don Antonio Crispino di preclare virtù,
che succede a don Luigi Marini) la quale certamente influì sull’educazione del
figlio, accompagnandolo, almeno nei primi anni, nell’esemplare itinerario
religioso.
Ma qui,
val la pena di riflettere ancora su qualche aspetto forse finora non
sufficientemente evidenziato, da cui più chiaramente riluce la sua santità.
Il primo
tema che mi permetto proporre afferisce al suo pensiero. Come è desumibile dai
numerosi suoi scritti a partire dal Monitore Ecclesiastico, le Consultazioni e
le Questioni morali, canoniche e liturgiche, la sua speculazione trae luce dalla filosofia di Tommaso d’Aquino
e, per quanto concerne la dottrina giuridica, dall’opera di Sant’Alfonso Maria
dei Liguori – il Santo del Secolo dei Lumi –
che investono primariamente il problema della ragione e della fede, ma,
anche, della tradizione e del progresso.
Per il
Nostro la ragione e la fede non sono in conflitto tra loro, ma, piuttosto si
integrano in quel processo di continuo perfezionamento, che San Bonaventura
identifica nell’ “Itinerarium mentis in Deo”.
L’uomo
tende naturalmente a Dio e la ragione cerca di raggiungerLo, ma trova il suo
limite nel limite stesso dell’esperienza, ovvero di quanto è sperimentabile.
Pascal
avverte che Dio si nasconde a chi lo tenta,
ma si rivela a chi lo cerca. E tentare Dio significa volerlo raggiungere
con la sola capacità razionale, cedendo a quella che Kant chiama l’”arroganza
della ragione”. Cercare Dio vuol dire, invece, contare, si, sulla ragione, ma
nel limite dell’esperienza e affidarsi poi alla fede, che sola consente di
andare oltre quel limite, verso il fine ultimo, che è appunto Dio e ciò nella
consapevolezza che “la fede - come ha detto San Paolo – è la prova delle cose
non vedute” e che la stessa è elevata da Cristo a beatitudine, come leggiamo
nel Vangelo della “Pentecoste giovannea” (Giovanni XX, 19-31).
Dunque, la
ragione è essenziale alla ricerca, ma non sufficiente a varcare la soglia: essa
è dono di Dio e perciò lungi dall’esser
negata, deve essere usata, sapendo, tuttavia, che il trascendente supera le sue
possibilità. All’uomo è data – come insegna Agostino, con la libertà, la grazia
della fede, che è l’adesione dell’intelligenza alla Verità rivelata . Tutto ciò
per il Gennari significa che l’uomo è, si, essere razionale, ma anche soggetto
di grazia e la grazia – come afferma Tommaso – non elimina la natura, ma la
perfeziona: “Quanto mai è preziosa la grazia – scrive nei sui illuminanti
Pensieri il Cardinale – Niuna cosa creata
può reggere al paragone con questa”.
Ecco
perché egli può dirsi un pensatore illuminato, ma non illuminista, posto che
l’Illuminismo esclude, anzi avversa tutto ciò che non è riconducibile alla
ragione: la trascendenza, la metafisica e, perciò, Dio, l’immortalità, l’anima.
Ma
l’Illuminismo condanna anche la tradizione, quale pregiudizio storico, di cui
l’uomo di ragione deve liberarsi.
Vero è,
invece, che la tradizione (come anche etimologicamente si comprende), non
contraddice ma rinviene in se stessa il fondamento del progresso.
Il Gennari
supera perciò felicemente la divisione anche accademica, che al suo tempo
impegna in distinte Scuole menti insigni nell’ambito della stessa Chiesa, per
cui, da una parte si pongono i
sostenitori della tradizione, dall’altra quelli del progresso. Egli invece apprezza il valore della
tradizione, consacrata nella storia e nella dottrina della Chiesa, senza perciò
essere “tradizionalista” e si apre al nuovo senza essere “modernista”, ovvero
senza cadere nell’errore immanentistico proprio del Modernismo (la cui condanna
(1907) cade non a caso nel periodo di più intensa collaborazione del Nostro con
Pio X). Verrebbe da dire che il Gennari, come tutti i grandi dell’Umanità, il
cui pensiero resta nel tempo perennemente attuale, è moderno perché è antico! E
nuovo è certamente il suo pensiero politico, che non vuol contraddire, ma
piuttosto modificare l’atteggiamento della Chiesa, che discende dal “Non
expedit” di Pio IX (1874) e che, come noto, inibisce ai cattolici la
partecipazione all’elettorato politico attivo e passivo.
Nella sua
opera “Sui doveri dei cattolici nelle rappresentanze politiche” egli dimostra
che tutti e anzitutto i cattolici hanno l’obbligo di partecipare alla vita
pubblica per il conseguimento del “bene comune”. Orbene, un pensiero così
moderno ha forti radici antiche. Non deve perciò sorprendere di trovare in tale
opera, tra l’altro, l’eco fedele delle Lettere di una santa medievale, Caterina
da Siena, che , a sua volta si rifà a San Tommaso d’Aquino, il quale, come è
stato detto, cristianizza Aristotele, anche nel pensiero politico.
La
presenza attiva nella vita parlamentare, come nella guida delle singole
comunità civiche presuppone nei singoli uomini virtù civili e morali senza le
quali non avrebbe senso e fondamento proprio l’impegno politico, se fine di
questo è il bene comune, ossia il benessere materiale e morale di tutti, in
assenza del quale non v’è giustizia e non vi è pace, perché, anzitutto, non v’è
amore. Ma v’è di più: non si può volere il bene degli altri senza essere
autentici testimoni di Cristo, che ha amato gli uomini fino alla consegna di se
stesso alla morte e alla morte di croce e giacchè, come afferma Tommaso, “Totum homo est et quod potest et habet
ordinandum est ad Deum”, la legge, che deve essere diretta a tale fine, è giusta
solo se “ad bonum commune ordinatur” (S. T. h. I-II).
L’impegno
dunque per il bene comune, a partire dalla giustizia, comporta primariamente la
responsabilità dei soggetti politici, che devono saperlo procurare ed
assicurare attraverso, appunto, la legge giusta e l’azione corretta di governo,
sia nel contesto nazionale, sia in quello cittadino. Essi devono in loro stessi
“far rilucere – afferma Caterina – la
margarita della giustizia acciocché giustamente (sia reso) a ciascuno il debito
suo” (Lettera 337). Ma perché dalla giustizia discende la pace e l’una e
l’altra sono effetto di amore, il politico deve spogliarsi dell’”uomo vecchio”
… “e vestirsi dell’uomo nuovo, Cristo … seguitando le sue vestigia” (Lettera
367), cioè “il dolce e amoroso Verbo (che) corse come innamorato
all’obbrobriosa morte” (Lettera 258). Dunque è l’amore che, attraverso la
giustizia e la pace, assicura una vita ordinata e serena, in quella che
Caterina chiama “la città prestata”.
In tal
contesto vorrei concludere, rammentando che Casimiro Gennari in tutta la vita
di uomo e sacerdote, di pastore e giurista, ha assunto quale obiettivo
preminente la “salus animarum”. Egli sente che la sua vocazione è quella
indicata da Paolo: vivere con Cristo per collaborare al progetto della salvezza
dell’uomo. Le vie sono tante e diverse quante le occasioni e le testimonianze
dell’impegno, che per lui è soprattutto apostolico, sia nella pratica pastorale
ispirata a quella carità, che è comprensione e dedizione, sia nell’esperienza e
negli studi, diretti alla formazione dei giovani e del clero, come
all’edificazione di tutto il popolo di Dio. Ma non si può essere apostoli di
Cristo, se non si è santi con Cristo. La santità, presuppone la comunione con
Dio: un anticipo in terra della “theosis”, che è la nostra promessa di
Paradiso. Ma la gloria della theosis presuppone lo scandalo dell’Incarnazione e
perciò della passione e morte di Cristo, di cui
Il Vangelo
è così per lui il libro della vita e perciò il riferimento costante nella
predicazione, come nella scrittura e nel sacerdozio , il faro che gli indica la
rotta nella tempestosa navigazione della storia, sia quando questa si fa
“Questione meridionale”, ( che tanto lo sensibilizza sul piano della giustizia
sociale), sia quando la stessa si identifica nella “Questione romana”, (che lo
impegna nella ricerca di quelle soluzioni, che diverranno norme concordatarie
anche se solo nel 1929). Evangelica è la
carità, che lo fa profeta di quella povertà francescana, che significa, da un
canto, condivisione alla sofferenza di
chi non ha e, dall’altro, distacco da ogni cosa che troppo sentiamo
appartenerci. Ed è evangelica ancora la carità nella diffusione della
conoscenza anzitutto della Verità rivelata e, in quanto da questa discende,
della dottrina della Chiesa: un obbligo, questo, assunto come missione, chè
altrimenti non avrebbe senso un impegno così gravoso ed assorbente quale il
Monitore Ecclesiastico, ma, anche, la codificazione del Diritto Canonico. Ed
evangelica è, infine, la carità che si concreta nell’impegno sociale e politico,
che induce alla partecipazione alla cosa pubblica per il conseguimento del bene
comune.
Tutto ciò
ci fa concludere che il Gennari entra di diritto in quella galleria dei grandi
cattolici liberali, religiosi e laici, che hanno scritto e operato per la promozione dell’uomo e il bene del
Paese e che rispondono al nome di Gioberti, Lambruschini e Rosmini, Balbo,
D’Azeglio, Manzoni e Pellico, fino a San Giovanni Bosco, che, come il Nostro,
amante della Chiesa e della Patria, ebbe cara, in particolare, la formazione
dei giovani. Peraltro S. Giovanni Bosco e il Cardinale Gennari hanno in comune
la data del “dies natalis”: 31 dicembre.
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Ho
molto desiderato che fossero i giovani a far propria la memoria di questo
insigne figlio di Maratea perché solo i giovani possono farla vivere, nel tempo
nuovo che a loro è dato, nel senso vivo di una proposta di esempio, di guida,
di riferimento. E sono grato che tale desiderio abbia trovato una così positiva
risposta nella gioventù studiosa di Maratea e di quanti frequentano i suoi
Istituti, che ora si preparano a darne prova attraverso una produzione
letteraria ed espressioni artistiche, certamente apprezzabili.
È, invero,
questo un desiderio “antico”. Ricordo a me stesso – e lungi da qualsiasi tentazione di autoreferenzialità -
che si era negli ormai lontani anni 1952
-
Quello
spirito giovanile, nonostante il tempo che inesorabilmente “ruit”, mi ha portato
a promuovere, con altri, la commemorazione , nel 1977, del centenario del
Monitore Ecclesiastico, nel 1989, del centocinquantesimo anniversario della
nascita ed ora del centenario della morte.
Voglia
Iddio che i giovani di oggi possano in un non lontano futuro celebrare il
Cardinal Casimiro Gennari, non solo come il più illustre figlio di Maratea, ma
come il più santo di questa terra stupenda, che fu già, nella Basiliana
Eparchia del Mercurion, patria di santi eremiti e profeti.
Francesco
Sisinni