4. Casa, dolce casa
Certo,
ognuno ha diritto a un alloggio ospitale e funzionale. Ma la sua quota di
personalizzazione non può non tenere conto, nelle dimensioni e nel disegno
esteriore, delle specificità del territorio, delle caratteristiche e della
storia del contesto. Così come non si può costruire un
grattacielo in riva al mare (a dire il vero uno l’ho visto: lo Sheraton, alto
cinquanta piani, in riva al mare di Rio de Janeiro ai bordi della magnifica spiaggia
di Vidigal), o su una montagna, non si dovrebbe
continuare a costruire abitazioni nuove dove abbondano quelle
semi abbandonate e disabitate, e dove comunque le stesse nuove il più
delle volte svolgono una funzione del tutto temporanea e ridotta. Il buon
gusto, il buon senso, il criterio di funzionalità razionale dovrebbero
prevalere. Non si propaganda qui nessuna omologazione piatta, nessuna logica
del termitaio da fabbrica industriale utilitaristica e sparagnina. Ma una casa, una struttura destinata ad abitazione, non può
trasformarsi in vitello d’oro cui sacrificare tutto: ad esempio l’equilibrio di
un insieme antropizzato che rifiuta esagerazioni, eccessi, abusi, sproporzioni.
La logica prevalente nella evoluzione involutiva in
atto è quella che sempre più travalica il proprio legittimo confort nelle
spinte imitativo-competitive, nelle manie di grandezza e nei deliri di
onnipotenza, che se giganteggiano nelle regge di politici e miliardari alla Billionaire, si
ripropongono in scala ridotta e più o meno miniaturizzata a tutti i livelli.
La
scelta del tipo di casa, le sue dimensioni e proporzioni, il disegno e
l’arredo, l’accordo tra le parti e la scelta dei colori, la dicono
lunga sulle caratteristiche di personalità del proprietario. Non a caso molti
sono anche i geni, vedi il filosofo viennese Wittgenstein, che hanno provveduto direttamente e meticolosamente al disegno e
all’allestimento della propria dimora. Ma sembra che oggi, per sentirsi
realizzati, per ritenere che la propria vita abbia uno scopo e un senso, la
proprietà di una casa il più possibile ampia e ricca
sia il massimo. Succede così che, dopo avere l’intera vita
profuso risorse ed energie per raggiungere il migliore risultato
abitativo, oltrepassati i sessant’anni, chi è senza figli o ha figli grandi
volati nel vasto mondo, cerchi disperatamente amici e conoscenti con cui
dividere vacanze e fine settimana, ospitalità in ville e barche altrimenti
abbandonate e vuote.
Imparare
a vivere meglio con meno, a non buttare e sprecare a vantaggio del benessere di
tutti e della salute dell’ambiente, questa è la ricetta forse riassunta con una
semplicità perfino banale, oggi semplicemente irrinunciabile.
Ma possibile che qui per bellezza
stia passando il concetto che si debba per forza distruggere il paesaggio
naturale preesistente per sostituirlo con muraglie di cemento, palmizi
indecenti e patetiche statue classicheggianti? Non è qui in atto l’alleanza tra
manie di grandezza proprietaria e interessi bulimici di banche e costruttori? E
la politica cosa è diventata, la vaselina necessaria alla fuoriuscita rapida e
continua di questi indigesti e variopinti cumuli di feci cementizie?
So
bene che trattare il tema della casa e i suoi attuali eccessi in termini
critici è un po’ come entrare in un recinto di cani affamati per cercare di
togliere loro l’osso. Si rischia di finire sbranati. La casa è rifugio e
dimora, luogo del riposo, della festa e dell’ospitalità, della generazione e
della rigenerazione. Ma qui è la dimensione speculativa, quella del bene casa
come vettore e moltiplicatore di denaro, ciò che si intende
denunciare. Qui il valore d’uso abitativo in un luogo gradevole e bello è
diventato un puro valore di scambio monetizzato perseguito quasi manu militari, con il seguito di voragini,
discariche e muraglioni, Suv e imbarcazioni, mastini
da guardia e da rissa - e altre obesità del genere. Io penso vada frenata e
neutralizzata l’arroganza e la pretesa di annettersi parti e porzioni di
territorio senza misura né limiti, quando per stare bene, soli o in compagnia,
ci vuole molto meno e qualitativamente meglio. Io
vorrei che di Maratea – e di qualsiasi altro luogo, regione e paese, beninteso
– si dicesse: questo è un territorio all’interno del quale si costruisce nel
rispetto di parametri che garantiscono l’identità, l’integrità, lo stato di
salute della natura e dell’ambiente, con un risultato che anzi lo migliora e
impreziosisce. E vorrei che la pubblica autorità promuovesse gare e concorsi
per la miglior abitazione ambientalmente integrata e
bella. E che a nessuno fosse concessa licenza se non su garanzia di un utilizzo
di quella casa il più possibile permanente e pieno. La natura di un territorio
non può essere pista di lancio del cattivo gusto, ricettacolo e sfogo dei
propri illimitati appetiti. La proprietà privata, quindi anche quella della
casa, non può non essere vincolata a limiti di sostenibilità sociale e
ambientale. E si deve chiedere un legame proporzionato tra vani e spazi
concessi e numero degli utilizzatori. E sarebbe bene ogni tanto ricordare che è
meglio fare un bambino piuttosto che una casa, e che la seconda deve essere
funzione calibrata del primo e di eventuali auspicabili altri. Non c’è niente
di più deprimente di uno o più vecchi soli e sperduti dentro spazi abitativi
inutilmente ampi e numerosi.
Intanto
migliaia di esseri disperati approdano alle nostre coste e vengono
stipati (malati, donne e bambini inclusi) in semigalere
indecenti. Quando le case vuote, non utilizzate e sprecate – a Maratea, nella
Basilicata interna, nel Sud d’Italia e nell’intera Penisola – sono migliaia.
Sullo slancio, viene proprio da dire che servirebbe un progetto di accoglienza,
ospitalità e formazione, a livello regionale, ma non solo, per un inserimento
pilotato, finanziato dalla Ue, che coinvolga almeno
parte del patrimonio edilizio non utilizzato (specialmente nei paesi interni in
progressivo degrado e abbandono), e che consenta impegno e lavoro, in qualità
di istruttori, insegnanti, formatori, ai giovani inutilmente laureati e
disoccupati. E’ così – come da tempo sostiene, profeta
che grida nel deserto, il mio amico Nicola Savino – che si dovrebbe affrontare
una emergenza sociale e umanitaria altrimenti sempre più drammatica: coniugando
e incrociando in modo ottimale problemi e risorse: non sempre, gli uni e le
altre, raggruppati da una sola parte. Insomma, lasciatemi sbottare: qui non servono altre case e ville! Qui servono bambini, e idee per
una vita associata di qualità; infrastrutture leggere e funzionali; servizi
sociali; percorsi di formazione per l’accoglienza e l’ospitalità.
Ma
come fare per rimediare alle tendenze sopra citate, così intrise di individualismo egoista, per riconvertirle a una
dimensione più largamente e solidalmente fruita? Non è semplice, dopo tanti
anni di consolidamento di una tendenza, di una logica siffatta, ma è possibile.
Per esempio, che i proprietari di case e ville vuote si avvalgano di qualche
agenzia specializzata e di internet per affittare per
una o più settimane la propria villa inutilizzata. Ne ricaverebbero un risultato,
ne farebbero partecipare e fruire altri. Oppure, che chi ha
nella sua casa stanze in più – e chi non le ha potrebbe essere incentivato a
realizzarle – le affitti con la formula oramai in forte diffusione del b&b (che non vuol dire Brigitte Bardot, ma bed &
breakfast) A un primo segmento di domanda che preferisce l’utilizzo di una casa
in esclusiva, e per periodi anche piuttosto brevi, si aggiungerebbe il segmento
di chi invece predilige il contatto e la conoscenza diretta con famiglie del
luogo. Certo, queste sono forme di reddito integrative:
ma piuttosto dell’attuale vuoto spettrale e dello spreco…