13. Un turismo dell’ospitalità amica

Immaginate un paese dove parte degli abitanti vive dell’ospitalità che all’interno delle proprie case offre a chiunque sia disposto ad accettarla in cambio di un giusto prezzo. Una ospitalità tipo bed & breakfast famigliare, là dove, nella sufficientemente ampia e attrezzata abitazione, all’ospite, o agli ospiti, vengono messe a disposizione camera e bagno, mentre la colazione o, volendo, anche i pasti, possono essere consumati separatamente o insieme. In diverse parti del mondo questo già in qualche misura avviene, e le nostrane formule standard di certi agriturismi vi si avvicinano. Non chiusi dentro un albergo, ma ospiti in una casa e a contatto di gente del luogo, si avrebbe modo di entrare in un contesto famigliare specifico, farne la conoscenza e, in qualche misura significativa, parte. Avverrebbero scambi più diretti e intensi, ci sarebbe una circolazione di esperienze che, ripetute nel tempo, si trasformerebbero in legami non effimeri, in vere e proprie amicizie. Quale migliore antidoto alla separatezza, all’isolamento, alla solitudine, quale modo migliore per aprirsi al nuovo e al diverso, per reciprocamente sprovincializzarsi e arricchirsi? I “non luoghi” del turismo di massa, analizzati da Marc Augé, sono quelli impeccabili, super efficienti e super standardizzati, ma anche impersonali e freddi, che dilagano oramai nel mondo intero grazie alle crescenti transumanze dei business men e del turismo di massa. I flussi globali ipercinetici e low cost, veicolo necessario a una più democratica fruizione della bellezza dei luoghi, è giusto esistano e prosperino. Ma è necessario siano accompagnati e bilanciati dalla possibilità di una esperienza vissuta con gli abitanti del luogo che si rendano disponibili.

Ad Acquafredda, nelle stanze ricavate in un ex frantoio dove da alcuni anni io e la mia famiglia trascorriamo le vacanze, un bel po’ di anni fa, più di cento e cinquanta, viveva una piccola comunità di contadini guidati da un prete – don Daniele Faraco, ottima guida di spiritualità e vita, a dimostrazione che non tutti i religiosi dell’epoca erano borbonici reazionari e omicidi come il pessimo Peluso. Erano diverse famiglie, decine di persone. Coltivavano i terreni circostanti a grano, ortaggi e legumi, oliveti, vigne. Allevavano pecore, mucche, capre, conigli, maiali, galline. Il grande e articolato edificio di cui noi oggi occupiamo alcune stanze tiene ancora dentro la sua cantina la gigantesca macina che girando schiacciava le olive per ricavarne un denso e profumato olio. E i paesani che abitavano insieme l’intera grande casa/frantoio macinavano il grano sull’aia posta nella parte superiore, ancora visibile nella sua traccia circolare. L’edificio, così pieno di storia, è collocato sul ciglio di un vallone, e sopra inizia immediatamente un bosco fitto e profumato dal quale d’inverno sbuca ancora qualche vagabonda mucca podolica, una solitaria volpe predona e perfino qualche cinghiale alla ricerca di cibo. Dall’altra parte del vallone, sul crinale opposto, a poche centinaia di metri di distanza in linea d’aria, c’è la casa di una famiglia composta da persone a noi amiche da anni, i cui tre figli oramai cresciuti abbiamo visto nascere. Sono venuti a trovarci a Roma, li abbiamo ospitati e guidati a conoscerla. Mi è capitato una estiva domenica mattina di partecipare alla loro colazione. Poi, in compagnia di Giannino, il capofamiglia, del suo primogenito Gino, abbiamo fatto una bella camminata lungo il letto del vallone che sale serpeggiando fin dentro i monti. Mi hanno mostrato con orgoglio i pezzi di terreno nel tempo puliti, recuperati e trasformati in orto, spiegato i pro e i contro della coltivazione e crescita dei vari legumi, raccontato episodi e aneddoti divertenti. Ho appreso cose che non conoscevo entrando in dimensioni ed esperienze che mi hanno ricordato sapori e costumi dei miei paesi d’infanzia nel profondo Nord. Ho ascoltato i loro progetti su possibili trasformazioni del vallone, che ha caratteristiche che bene si prestano, in parco tematico per visite guidate ai ragazzi della scuola dell’obbligo, per far loro conoscere e apprezzare una dimensione di preservata e intensa natura. Poi a mezzogiorno, ritornati alla loro casa, abbiamo bevuto assetati un bicchiere d’acqua fresca e poi gustato mezzo bicchiere di vino come aperitivo. Ogni estate, una o più sere, siamo ospiti a cena sul piccolo terrazzo della loro casa sospeso sul verde della valle, sotto un cielo stellato che in città ci si sogna. Si sorseggia un cocktail preparato con maestria da Luciano, che lavora come barman nel migliore hotel della zona, si assapora rapiti la squisitezza dei cibi preparati da Maria, che si destreggia tra tre figli da crescere, incarichi politici per conto di una formazione della sinistra, i servizi in qualche villa. Ecco, dicevo: questo modo più interno e vicino, più intenso e ricco di dare e condividere l’ospitalità a esterni umanamente curiosi e disponibili, non potrebbe essere la forma giusta di turismo per il futuro? Non sarebbe un turismo solidale, socialmente responsabile e sostenibile, proprio di uno spirito amicale e di un’attitudine collaborativa? Non è così che si dovrebbe tendenzialmente tutti fare vacanza, rispettando i bisogni veri, nostri in quanto esseri umani, nostri in quanto ospiti transeunti di madre terra?

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