19. Elegia in onore di una vecchia e abbandonata Villa storica
Oggi io lì non provo neanche
più il desiderio di avvicinarmi. So che c’è, se voglio riesco
mentalmente a ricostruire la struttura nel suo insieme e nei dettagli, le sale
interne riportate alla loro bellezza originaria (quella precedente lo sfregio
del linoleum per l’ospitalità all’Intesa, terremotata e oggi
defunta fabbrica tessile), le scale con i marmi, gli stucchi e le citazioni
latine, la terrazza merlata sospesa come un balzo tra i differenti magnifici
azzurri del cielo e del mare.
Posso ancora avvalermi del ricordo
delle foto d’epoca che ritraggono scorci di pergolati e alberi da frutta
del suo grande giardino, i sentieri dalle sinuosità serpentine che ai
due lati del monte conducono verso le spiagge e il mare.
Posso senza sforzo indovinare le
estati operose trascorse da Francesco Saverio Nitti nei primi anni Venti del
secolo scorso a dare corpo all’edificio della Villa e, insieme, alle sue
riflessioni sull’Europa, la sua storia gloriosa, gli scenari e gli
auspici per quella futura.
Posso immaginare il ritorno in Villa
delle allegre brigate estive dopo l’abbandono e la rimozione ostile del
ventennio fascista, dopo l’esilio dello statista in Francia e i venti
mesi di prigione in Tirolo. E la gradita ospitalità a Giorgio Bassani e
Pietro Amendola, come ad altre personalità eminenti e illustri.
Posso mentalmente partecipare alle
scorribande di Gian Paolo e le cugine con amici e colleghi, fidanzate e
fidanzati. Ed è come avessi partecipato al lutto lacerante per la morte
del nipote di Francesco Saverio, allo schianto raccontatomi da Ernesto Galli
della Loggia che era in macchina con lui, ai ricordi di quei minuti, quelle ore
e quei giorni di strazio della madre Filomena, del patrigno Daniel Bovet, della
fidanzata, delle cugine e del cugino, degli amici e dei compagni di partito,
dei marateoti e dei lucani tutti – alcuni democristiani bigotti esclusi.
E, degli anni Ottanta e Novanta, custodisco nella mente e nel cuore gli
incontri, le riunioni e le feste di popolo, le manifestazioni teatrali e
musicali godute la sera in terrazza accarezzati dalla brezza del mare sotto un
notturno e sontuoso cielo stellato.
So che è sempre lì,
quel luogo così denso di eventi storici e di accadimenti famigliari, di
ricordi ora intensi e belli, ora terribili e dolorosi, come quello del
riproporsi tragico e simmetrico, trent’anni dopo, della morte di Filippo,
figlio di Giovanni e Rosaria, fattori e custodi della Villa, che hanno
partecipato intensamente alla tragedia della morte di Gian Paolo, costretti ad
affrontarla e riviverla in una replica ancora più direttamente
straziante e dolorosa. E’ lì, integra e intatta, pulita e dipinta
come un’apparizione dalla perfezione surreale. E’ stata a lungo
oggetto di brame, di contese e manovre, di rivalità e invidie. E’
lì come un fantasma che sembra inventato dalla immaginazione birbante del
miglior Pirandello, un luogo magico, una struttura che è stata tempio e
laboratorio del pensiero della politica meridionalista – ed europea, e
universale! – tra le più alte
E’ sempre lì,
malinconicamente vuota da quando (nel 1973, trentacinque anni fa) è
stata acquistata per una cifra irrisoria dalla Regione Basilicata. Evanescente
ed effimera eppur irriducibilmente concreta, una affascinante promessa che si
direbbe essere stata malignamente fatta abortire. L’immagine desolante
che ne viene è quella di uno splendido giocattolo regalato a un bambino
non in grado di comprenderne i meccanismi preziosi e segreti, di farlo suo,
goderne e farne godere.
Ora è lì, orfana di un
senso esplicito e compiuto della sua vocazione.
Potrebbe anche sprofondare e
scomparire nei flutti del mare, o essere assunta in cielo come una madonna
laica e scristianuta, e nessuno se ne accorgerebbe.
Potrebbe essere utilizzata come
ostello per giovani globe trotter cosmopoliti o per gli extracomunitari erranti
(durante il ventennio fascista si era ipotizzato di trasformarla in
collegio-colonia per i bambini orfani), oppure trasformata in casinò
gestito da qualche emulo di Briatore per gli agi e i capricci degli oligarchi
russi e dei principi degli emirati arabi. Potrebbe essere offerta a qualche divo
del pallone: il territorio intero ne ricaverebbe un giovamento di
pubblicità strepitoso, una notorietà da far venire
l’itterizia agli invidiosi detrattori.
Oggi alla Villa non ho più
neanche il coraggio di avvicinarmi perché per me è diventata come
un’ ulcera esasperata, una bellissima e insieme dolorosa fistola, una
escrescenza e un cratere provocati in epoca remota dalla caduta di un
meteorite. Mi è diventata immagine insopportabile perché
generatrice di rimorso, cippo che sancisce l’impotenza, pura bellezza
prigioniera del vuoto, rammarico per un sogno che alla fine non si è
avverato.
Francesco Saverio, Filomena, Gian
Paolo,
Ma forse, una delle
ragioni per cui Villa Nitti rimane malinconicamente vuota deriva dal fatto che
essa non è espressione genuina del luogo, dei suoi abitanti,della loro storia
e cultura. Non è il palazzotto residenza della locale famiglia
nobiliare. In effetti, per la mentalità profonda e il sentire diffuso
degli abitanti del luogo, il territorio non viene vissuto e concepito come
necessariamente vocato al turismo, con una bellezza aperta a una libera
fruizione di chiunque e di tutti. Chi viene da fuori è sì
accolto, ma anche tollerato come estraneo un po’ ficcanaso e abusivo: che
non desse troppo fastidio, perché anche la pazienza di persone tolleranti
e buone ha un limite. In effetti,qui le persone sono semplici, storicamente
legate all’agricoltura e alla pastorizia. Il destino le ha collocate in
un contesto paesaggistico di una bellezza rara. Non l’hanno chiesta loro,
non ne hanno mai assunto compiutamente responsabilità e privilegio,
forse, in qualche maniera e misura, questo miracoloso dono li ha resi perfino
inquieti e diffidenti, come chi si senta inopinatamente chiamato a
rappresentare e sostenere una cornucopia di risorse territoriali troppo
impegnativa. Forse, ad allarmare, è il sospetto di una costrizione a un
sentimento di gratitudine che porta con sé l’obbligo della
restituzione. Non suoni gratuito o offensivo, ma si coglie a volte
nell’aria la percezione di una punta di maldisposto broncio, un
malcontento sotterraneo per una bellezza che è così smisurata da
pesare sicuramente anche come sentimento a carico. Certo, non è da
escludere nel gioco neppure una legittima resistenza a spinte che si temono
capaci di snaturamento, una rivendicazione della propria identità che si
intende così proteggere dietro una cortina di orgogliosa sottrazione.
A farsi carico di un elogio e di un apprezzamento esplicito
delle bellezze naturali del luogo sono in effetti più gli esterni e i
forestieri, così come a impiantarvi attività alberghiere e a
tentare iniziative di valorizzazione. Il piemontese Rivetti, agevolato dal suo
ruolo di imprenditore e dalle sue potenti e altolocate amicizie politiche, di
questo intervento esterno è stato negli anni Cinquanta e Sessanta il
capostipite. Non a caso si è appropriato di molti dei luoghi
paesaggisticamente rilevanti: dal rione Castello sotto la svettante statua del
Cristo – la cui costruzione ha fermamente voluto, facendosi alla fine
tumulare nella sottostante grotta dell’Angelo -, all’Hotel Santavenere
e alla Torre Imperatrice in quel di Fiumicello, al tratto di costa detta degli
Illicini di fronte all’isolotto del Santojanni, ecc. ecc. Ma
pressoché tutte le principali strutture alberghiere sono risultato
dell’iniziativa e della capacità di persone non originarie di
Maratea, e neppure della Basilicata. Vorrà dire qualcosa?
Ecco perché anche Villa Nitti è vissuta come
piovuta dall’esterno, costruita da estranei per le loro vacanze. E’
come una bellissima aliena Barbie innestata su un corpo la cui identità
e storia, per quanto interessanti e belle, sono totalmente altre. Ma questa
chiave di lettura – ciò che a Maratea è connaturato e
congenito versus ciò che invece è il risultato
di un intervento esterno – potrebbe servire a tracciare una linea e un discrimine
che non riguarda solo Villa Nitti. Quante sono le ville sul territorio di
Maratea frutto di interventi esterni e adibite a dimora per le vacanze estive
di forestieri? Una alluvione. Quanta quota di integrazione è stata
metabolizzata, e quanta incrostazione invece di estraneità, indifferenza
e diffidenza si è sedimentata?
Tu vieni qui a riposare, spensierato e festaiolo. Assaggi e
pillucchi, spendi ed esibisci, senza mai realmente confrontarti e impegnarti
fino in fondo. Ci sei e non ci sei, e non si capisce mai, in questo estivo
teatrino delle finzioni e delle simulazioni, fino a che punto sei realmente
presente e disponibile. Tu hai e sfoggi ciò che noi difficilmente
avremo, o forse mai. Tu con questo territorio hai un rapporto di fruizione e godimento
sbrigativo e strumentale. Arrivi con il seguito di valige e bagagli, di amici e
parenti. Riparti come il vento, come sei venuto, con qualche souvenir in
più. Noi, dopo ogni tua partenza, rimaniamo qui a fare i conti con la
desolazione dell’inverno. E così da sempre e per sempre.