20. Noterelle (antropologico-sociologiche) sparse

Come affrontare l’eterno e doloroso problema causato dal senso di precarietà e contingenza proprio della condizione umana: negandolo in quanto generatore di angoscia, o mettendolo al lavoro per sfruttarne le potenzialità creative? Secondo il filosofo Massimo De Carolis (1) diverse sono le strategie che l’umanità finora e al proposito ha sperimentato. La strategia del mondo arcaico e premoderno si è affidata al dispositivo del rituale, che “nel suo presentarsi come momento eccezionale di sospensione della normalità, e insieme come paradigma da cui traggono legittimità le norme della vita quotidiana, mimandone fattezze, temi, tempi, movenze, include - spettacolarmente, performativamente - il caos nell’ordine.”

La strategia adottata dalla modernità ha invece prodotto “una rimozione del problema causata dalla sottomissione delle pulsioni dell’Io allo Stato, dal loro assoggettamento a una pubblica autorità” - scelta che si è trasformata in nevrosi.

 La strategia adottata nell’epoca postmoderna e contemporanea – sempre alle prese, come le precedenti, con la necessità di neutralizzare l’angoscia per la precarietà e la contingenza - è invece caratterizzata, più che dall’approdo a, e dall’assunzione di una cifra unitaria, da “un pulviscolo di manifestazioni ambivalenti, all’interno di una disponibilità fluida e inebriante ma ancora tutta da connettere in una configurazione di insieme”.

 Viene da pensare che oggi il Sud sia interessato e attraversato dagli effetti di tutte queste strategie: da quella del ricorso a rituali per iscrivere il caos nella normalità neutralizzandone così il carico d’angoscia; dall’assoggettamento all’autorità, per ricavarne protezione e rassicurazione, pagando comunque un conto in termini di nevrosi (e spesso di pizzo); dalla postmoderna apertura allo sciame eccitante di manifestazioni ambivalenti (l’incontro e l’incrocio tra potenza dei flussi sovranazionali e consistenza dei luoghi, come direbbe il sociologo Aldo Bonomi), senza però godere ancora dei vantaggi di un approdo a una configurazione di insieme. Ecco quindi, e ad esempio, i riti della taranta o degli auto flagellanti in processione coesistere con la protezione di un ordine che spesso è quello della malavita organizzata, ma religiosissima e devota a Dio, Patria e Famiglia; e, insieme, la vertigine della navigazione su Internet e l’accesso potenzialmente illimitato alle tecnologie della comunicazione, che irrompono destinate però “più a un esito di dissociazione e fuga che a un processo di comunicazione riuscito”, sempre secondo il nostro filosofo. Ma De Carolis non è così negativo nella diagnosi e così infausto nella prognosi. Intervenendo sugli stessi meccanismi che generano lo scacco – così come succede nella sfera del gioco infantile, là dove è possibile cambiare le regole all’interno dell’atto stesso di apprenderle (Holderlin direbbe che la soluzione nasce proprio là dove si concentra il massimo della crisi) – egli sostiene che si possa ancora attingere a un potenziale emancipatorio, alla possibilità di un cambiamento.

Ma quando – lasciando per un momento da parte le interessanti riflessioni di De Carolis, e tornando ai meridionali e a tutti noi - è il caso di ritenere che la situazione problematica di un individuo, di un gruppo famigliare, di una comunità, sia particolarmente seria e perfino grave? Non tanto, a mio avviso, quando ci sono sintomi anche evidenti di trascuratezza, inadeguatezza, irresolutezza. Non tanto, o soltanto, quando si è in presenza di un deficit di vitalità, energia e determinazione. Non tanto quando si è inadempienti rispetto agli impegni assunti. E neppure, o non del tutto ancora, quando di problemi, omissioni e inadeguatezze si tende perfino a evitare di parlarne, opponendo sguardi sconsolati al cielo o gemiti di autocommiserazione e di appello alla compassione. Non è per ciò che una situazione è da considerare al suo più allarmante stadio. La condizione di un individuo, di un gruppo famigliare o di una intera comunità entra nella sua fase più preoccupante e grave quando un sentimento di impotenza si è nel tempo talmente cronicizzato da approdare alla dimensione isterica (e di esorcismo auto anestetizzante) della rimozione e del rifiuto. “Io problemi? Io non ho problemi! Caso mai, ad averceli sarai tu!” Lì allora il guaio è realmente serio, perché, in assenza di una consapevolezza dello stesso, e avendo adottato un meccanismo di rigetto esorcistico, diventa realmente difficile praticare qualsivoglia efficace terapia. Perché? Ma perché non ci sono più, o sono troppo scarsi, condizioni e presupposti necessari all’esercizio di una dialettica del cambiamento e delle trasformazioni. Se si ricorre all’astuzia (illusoria) di negare il problema, se non si afferra per le corna la propria parte inadeguata e immatura per confutarla e superarla nell’ adesione a un modello più avanzato e a comportamenti più evoluti, di strada non se ne farà sicuramente molta. Gli errori continueranno ad essere ripetuti, e l’attitudine inerziale a commetterli sarà tale che, in presenza del troppo di fatica che la conversione e il rimedio comporterebbero, si continuerà a prendere atto della loro insuperabilità e si procederà navigando a vista e campando alla giornata. Il limite vero e il peccato saranno a quel punto diventati la perdita di speranza nella possibilità di cambiamento. Il mondo è stato, è, e sempre così sarà. Ogni proposta di correzione e modifica è a quel punto vissuta come minaccia, cui si tenderà a opporre la fatidica formula di furbizia difensiva che purtroppo accompagna il Sud da troppo tempo: “Tu pensi di fregarmi? Ma prima che mi freghi tu, a fregarti ci penso io!”, e avanti precipitando dentro un vortice di scetticismo, fatalismo e cinismo. Ma questo forse non è ancora il peggiore degli approdi, il pessimo essendo quello di chi, per i troppi traumi e colpi subiti, si ritrova con un carico di angoscia oramai così fuori controllo da riprodursi autonomamente, con un bisogno compulsivo di pretesti necessari a rilasciare il troppo di tensione, sofferenza e frustrazione accumulato. E via ricominciando da capo.

L’altro problema che, sempre a mio avviso (ma lo aveva già affrontato nella seconda metà degli anni cinquanta Edward C. Banfield nel suo trattatello sul familismo amorale, ricavato da una indagine sulla vita sociale di Chiaromonte) caratterizza e condiziona molte comunità del Sud, è il primato assoluto del legame di sangue rispetto a qualsiasi altro pubblico riferimento e civile vincolo. Il legame di parentela famigliare è diventato in effetti una sorta di Moloch cui si sacrifica tutto il resto. C’è infatti chi sostiene che la mafia e la camorra, di questo primato inviolabile, di questa costruzione amorale costrittiva, altro non siano che esplicita e conclamata conseguenza. Così come certa pratica religiosa rituale e superstiziosa ne sarebbe complemento e sigillo. Perché, altrimenti, la devozione a pie immagini e ad altarini da parte di affiliati, boss e padrini?

Mi è capitato di assistere a risse furibonde, al limite dello scontro fisico potenzialmente mortale, là dove il consanguineo di qualcuna delle parti implicate, capitato nella mischia dall’esterno e all’improvviso, non si applicava un istante per cercare di capire torti e ragioni, non si spendeva in nulla per interporsi e separare, ma d’impeto si schierava dalla parte del padre, o fratello, o figlio, o nipote, o cognato e cugino, o figlioccio, e cominciava a menare. Sentimenti, affetti e legami famigliari qui, spesso, o quasi sempre, sono l’irrompere incontrollato di un irrazionale prius viscerale. Per i genitori i figli hanno sempre ragione, a prescindere. Il nemico è l’altro, il collettivo e minaccioso fuori, il pubblico e lo Stato. Ma non è questo il modo per edificare una comunità, una società dai piedi d’argilla?

So bene, d’altronde, che anche l’opposto primato assoluto dello Stato, cui l’individuo e il gruppo famigliare debbano solo servire e obbedire, è eccesso parimenti dannoso. Ma una misura in equilibrio equidistante dai due fondamentalismi è non solo possibile, ma assolutamente da ricercare. E nel Sud la torsione unilaterale codificata e agita è ancora nettamente a favore della famiglia, quasi per nulla o molto poco della collettività e dello Stato. E questo nuoce a una autonoma e responsabile crescita dell’individuo, che è fondamento di una più evoluta (post) modernità.

Quindi, e ad esempio, ecco le liste elettorali predisposte per le elezioni amministrative in base alla logica di un’alleanza tra famiglie imparentate. Il riconoscersi nei valori e nel programma di una forza politica viene dopo, e spesso in modo del tutto opportunistico e strumentale. Poi magari si sceglie, appoggiandosi a una forza politica piuttosto che all’altra, quel candidato i cui requisiti di immagine, professione, eloquio, garantiscono il necessario valore aggiunto. E il gioco è fatto.

E la visione e la missione, la proposta di un orizzonte di crescita nel benessere comune, il progetto che lo rende attuabile e possibile? Mistero. E la necessaria capacità di programmare, decidere, guidare, razionalizzare e ottimizzare, di vedere le cose in grande, complesse in sé stesse ma legate e interconnesse? Scarsa. Pensiamo ad esempio ai Comuni (da San Giovanni a Piro a Scalea) che si affacciano sul Golfo di Policastro. Non partecipano di una condizione sostanzialmente analoga, non fanno i conti con esigenze e bisogni simili, non affrontano gli stessi problemi? Non potrebbero e dovrebbero quindi collegarsi, confrontarsi, interfacciarsi (proprio perché appartengono amministrativamente a tre Province di tre diverse Regioni) per ragionare sul cosa fare al fine di proteggere e valorizzare il mare come bene pubblico, l’integrità e l’efficienza del territorio lungo la costa, organizzarsi per prolungare la stagione turistica? E invece, l’uno all’altro ignoti e l’un contro l’altro schierati, ciascuno replica le stesse sagre e musiche nella tiritera di una noiosa ripetizione. Potenziare, unificare e ottimizzare risorse ed energie; imparare a lavorare insieme; individuare e selezionare il meglio, cose che altrove, in reti e consorzi creati ad hoc, si fanno e anche bene: perché in questa parte del Sud, invece, non ancora, o troppo occasionalmente, o così a singhiozzo e malamente?

Una cultura che incorpora e riconosce come fondamentale la diade servo-padrone, vittima-carnefice, è cultura fondata su una alternativa angusta e letale perché falsa e rigidamente chiusa. Che speranza di salvezza può esserci per quella persona convinta che la soluzione dei suoi problemi sia il passaggio dallo stato di servo a quello di padrone, dalla condizione di vittima a quella di carnefice? Non si tratta di movimento del tutto apparente, all’interno del dominio di una economia psichica e morale sostanzialmente uguale? Anche in Veneto negli ultimi decenni c’è stato un grande travaso di identità socio-professionale dal ruolo di operaio a quello di padroncino. E’ sicuramente aumentata la ricchezza materiale, ma evidentemente non altrettanto la libertà mentale, morale, culturale. Spesso non c’è padrone più oppressivo e spietatamente sfruttatore di un ex operaio. La vera alternativa è quella tra dipendenza e autonomia: il che non partecipa di una stessa dimensione, della posizione nella sostanza non diversa dello stare sotto e dello stare sopra, ma comporta il passaggio da una dimensione all’altra, da quella di sottomissione e soggezione a una di libertà che si coniuga con emancipazione e dignità, e che comporta l’assunzione della propria esperienza di vita come rischio, impegno, responsabilità. Io credo che plebi meridionali e bande di briganti abbiano entusiasticamente aderito alla chiamata del cardinale Ruffo e dei sanfedisti proprio come risultato della riflessione che ho sinteticamente proposto: niente di più estraneo, incomprensibile e faticoso dell’emancipazione e della libertà proposte dagli intellettuali illuminati e dalla borghesia rivoluzionaria napoletana; niente di più facilmente comprensibile e attraente, invece, del saccheggio, della rivolta violenta, della carneficina e della gozzoviglia promessa dal cardinale Ruffo. E’ quest’ultimo che ha saputo parlare un linguaggio semplice e consonante; sono stati gli altri, finiti infatti tutti decapitati, a parlare un linguaggio di conversione così radicale da risultare incomprensibile e sconvolgente. Chi vuole essere rassicurato riconosce immediatamente il linguaggio famigliare di una antica soggezione: e può facilmente reagire alla proposta di drizzare la schiena e badare a se stesso come alla peggiore delle iatture.

Credo al proposito non superfluo segnalare all’attenzione un recente libro(2) il cui contenuto può essere così riassunto: è competente quella comunità locale che analizza la propria situazione, ne riconosce peculiarità e caratteristiche, problemi e bisogni, si mobilita per attivare all’interno e dal vivo un percorso concreto di trasformazione sociale. La realizzazione di tale percorso richiede coinvolgimento e partecipazione attiva di persone di quella comunità capaci di svolgere funzioni quali: a. la mediazione dei conflitti; b. l’animazione e la consulenza; c. la negoziazione; d. la costruzione di consenso critico attorno a un progetto. Queste capacità si promuovono e conquistano attraverso un adeguato programma di studio, relazioni sociali e iniziative capaci di rendere credibile una prospettiva di cambiamento consapevole. “Diventare una comunità competente vuol dire aumentare il proprio repertorio di possibilità alternative (dimensione politica), sapere dove e come ottenere risorse (dimensione cognitiva), chiedere di partecipare ed essere motivati, non tanto sul come o sul cosa fare, quanto sul perché della propria partecipazione (dimensione affettiva)”.

Che Carlo Caldarini, autore del libro, non sia soltanto sociologo, ma anche pedagogista, lo si sente dall’attenzione dedicata agli aspetti e ai meccanismi che presiedono motivazione, partecipazione, coinvolgimento delle persone nei percorsi/processi di cambiamento sociale che li riguardano. Lo sviluppo locale - viene infine precisato - non si fonda esclusivamente su temi economici, ma sulla difesa di spazi e di beni pubblici (suolo, aria, fauna e flora, acque sorgive, fluviali e marine), su investimenti non saltuari od occasionali sul terreno della in-formazione, sul ruolo permanente e attivo della cittadinanza.

(1)                        Il paradosso antropologico. Nicchie, micro mondi e dissociazione psichica di Massimo De Carolis, Quodlibet editore - 2008.

(2)                         La comunità competente di Carlo Caldarini, direttore dell’Osservatorio per le politiche sociali in Europa dell’Inca CGIL, pubblicato nel 2008 da Ediesse.

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