23. L’imprenditore
Io sono
Piero, imprenditore calabrese, e del mio mestiere mi vanto e vado fiero.
Mio padre
era conosciuto e apprezzato come uno dei migliori avvocati di Calabria.
Anch’io sono avvocato, ma non ho seguito le orme di mio padre. Ho scelto
di cimentarmi con la professione del moderno imprenditore: mi sono dato
obiettivi, ho definito e perseguito progetti prima nel settore
dell’informatica e delle telecomunicazioni, poi in quello
turistico-alberghiero, con la professionalità e la tenacia che il tempo
e l’esperienza hanno in me via via affinato.
Io sono
Piero, imprenditore calabrese, e a conferma delle mie origini meridionali sono
sanguigno e fiero come un orso dal pelo nero. Io sono sempre stato persuaso che
il Mezzogiorno d’Italia potrebbe trasformarsi in giardino del benessere e
dei piaceri, in luogo attrezzato per l’accoglienza e
l’ospitalità, ricco di quanto di meglio è difficile trovare
altrove: natura, storia, arte e cultura al loro massimo splendore. Noi italiani
siamo riusciti a bonificare le paludi e a rendere fertili i deserti, a far
sorgere nei luoghi più improbabili e remoti città scintillanti,
attività e commerci proficui. Oggi, a casa nostra, accogliamo in
discariche a cielo aperto i rifiuti tossici altrui, deprediamo e seppelliamo
nel cemento i luoghi che hanno ispirato arte e pensiero, tendiamo agguati
feroci agli ospiti che vengono a farci visita, diffondendo di noi la peggiore
immagine, quella del lazzarone miserabile e violento. Ci facciamo male da soli,
confermando l’antico cliché del “paradiso abitato da
diavoli”. Tra un po’, continuando così, il paradiso
sicuramente scomparirà.
L’area
del Paese in cui opero si distingue per carenza - o, per meglio dire, assenza -
di infrastrutture: per arretratezza cronica e inadeguatezza della pubblica
amministrazione; per approssimazione e – salvo qualche eccezione -
dilettantismo del ceto politico; per il costo del denaro che è di due
punti superiore alla media nazionale; per la piaga dilagante della malavita
organizzata che là dove annusa risultato economico significativo si
infila come zecca sotto pelle. Fare l’imprenditore oggi nelle regioni del
Sud del Paese significa esporsi a rischi e disavventure che, per mia esperienza,
non esito a definire terribili.
Ho
sperimentato sulla mia pelle ostacoli e problemi, rovesci e infortuni,
tradimenti e abbandoni. Malgrado ciò, continuo in un impegno che a volte
io stesso – per i crucci e i tormenti, per i costi e gli sconforti
– non ho difficoltà a definire folle: ma che tanto mi ancora mi
appassiona da non poterlo oramai più lasciare. Io sono tra quelli che si
possono definire “passione-per-il-proprio-lavoro-dipendenti”, e me
ne vanto.
Perché
io sono Piero, imprenditore calabrese figlio di uno dei più stimati
avvocati di Calabria: e malgrado tutto, malgrado fragilità e
incompetenza dei tanti politici e amministratori, malgrado l’arretratezza
sociale e civile dei luoghi in cui opero, malgrado infortuni, rovesci e cadute,
io non mollo. Perché io sono cresciuto alla scuola dei Misasi e De Mita,
criticabili come chiunque in alcune scelte, ma, a confronto dei politici
attuali, dei veri giganti.
Qualche anno
fa ero arrivato a uno stadio avanzato del mio miglior progetto. Avevo acquisito
alcuni tra i migliori alberghi della zona, avevo affittato, rinnovato e messo
in rete i migliori negozi, bar e ristoranti, ero pronto per ristrutturare e
rilanciare un’area industriale dismessa trasformandola in centro di
servizi, avevo messo nel libro paga - tutti sindacalmente in regola, fatto per
queste zone straordinario - 170 lavoratori. Ero perfino riuscito a mobilitare
le migliori competenze universitarie disponibili – dalla LUISS di Roma
alle Università di Salerno, Potenza e Cosenza – per realizzare insieme
una Scuola di Alta Formazione per il Turismo capace di provvedere alle esigenze
dell’intero Sud d’Italia. Avevo ottenuto la disponibilità di
consulenti finanziari di livello internazionale e le migliori esperienze in
ambito turistico alberghiero mondiale. Il mio era un progetto studiato allo
scopo di generare ricadute economiche positive sul territorio dell’intero
comprensorio, collegando e facendo interagire comunità della costa e
comunità dell’interno, località marine e parchi montani.
Ero riuscito
a collocare sulla pista di lancio un progetto integrato frutto di un pensiero
lungimirante e complesso - come oramai è assolutamente necessario fare,
in un contesto di mercati globali quale quello in cui oggi sempre più ci
muoviamo. Perché anche qui, nel profondo sud calabro-lucano, nella
scelta di un modello di sviluppo turistico indirizzato non alle masse –
che escludo non per disprezzo aristocratico, ma per la configurazione fisica
limitata dei luoghi –, ma a élites colte e danarose, tali
élites non possono più ridursi a sola espressione della borghesia
locale, ma devono saper attrarre e soddisfare i bisogni delle borghesie
mondiali: europee, americane, russe, giapponesi, cinesi.
Io sono
Piero, imprenditore calabrese in sintonia con le esigenze dei mercati mondiali.
Ho messo a punto un progetto che, dovunque nel mondo ritenuto ovvio e normale,
per l’esperienza e la tradizione di questi luoghi si caratterizzava per
un profilo di innovazione ed eccellenza. Avrebbe dovuto ottenere consenso e
plauso universali: dei piccoli operatori commerciali e turistici del luogo, che
da un innalzamento della qualità dei servizi e da un ampliamento
dell’offerta non possono che beneficiare; dei politici e degli
amministratori, per il rilancio in immagine e peso politico garantito dai
risultati; dei circoli culturali e dei settori sociali rispettosi
dell’ambiente: per la cura e l’attenzione per la natura e i luoghi,
per la loro intenzionale e mirata valorizzazione; della popolazione in
generale, per l’incremento dei posti di lavoro, del reddito e del
benessere economico collettivo.
Mi sono
ritrovato aggredito e travolto da un crescendo di invidie e gelosie meschine,
con politici e amministratori sempre più allarmati dalle
responsabilità e spaventati dalle difficoltà che la qualità
e l’impegno del mio progetto generavano, capaci solo di promesse
verbalmente reiterate e mai onorate, fino al punto da dovermi arrendere
all’evidenza, costretto a prendere atto che il mio progetto era in
realtà vissuto alla stregua di schiamazzo che disturba la quiete
pubblica. E quindi, prima smettevo di sollecitare, premere e reclamare, meglio
era.
Ma
ciò che mi ha più ferito è stato il constatare che molti
tra i miei stessi collaboratori e dipendenti – ripeto, tutti
sindacalmente in regola secondo il dettato dei contratti nazionali, cosa da
queste parti giudicata perfino eccentrica –, in presenza degli ostacoli e
delle difficoltà, delle critiche e degli attacchi, sono rimasti
silenziosi e muti, hanno girato la testa dall’altra parte negandomi
solidarietà e appoggio. Per la minaccia di chiusura di qualche reparto
dell’ospedale da tempo in declino, il paese è sceso in piazza
smuovendo opinione pubblica, stampa, autorità e politici. Per la difesa
di un progetto che valorizzava le risorse dei luoghi, e offriva prospettive
certe di lavoro alle nuove generazioni, nessuno ha alzato un dito.
Ho tentato
di smuovere e svegliare, di coinvolgere ed entusiasmare. Se non mi fossi
rinserrato nell’unico albergo che mi è rimasto come riparo e
fortilizio, sarei stato spazzato via e messo all’indice come molestatore
della pubblica quiete. Perché chi da queste parti osa volare alto e
indicare la strada per realizzare uno sviluppo di qualità utile
all’avanzamento economico e sociale dell’intera
collettività, si ritrova bersaglio di improperi e contumelie, di
calunnie e maldicenze, di infiniti controlli fiscali e continue ispezioni
giudiziarie, di sgambetti e sabotaggi, di trappole e dispetti – al punto
da temere per l’incolumità, se non della propria vita, quantomeno
del proprio equilibrio psico-fisico.
Io
desideravo soltanto che, accanto e insieme a me, ciascuno per la propria parte
si rimboccasse le maniche, ognuno facesse il suo dovere amministrativo,
politico, civico. Sono stato trattato da despota e demiurgo, da demagogo e
millantatore, da velleitario affetto da delirio di onnipotenza. Mi sono provato
a operare con serietà e passione nel ruolo di moderno imprenditore,
mettendo a disposizione risorse, professionalità, esperienza e
competenza. Mi sono ritrovato i connotati cambiati, trasformato in rompiballe,
mostro, caso clinico.
Non ho avuto
un euro di finanziamento pubblico, non ho sottratto ai miei collaboratori un
euro delle loro spettanze, non ho lesinato energie in impegno,
responsabilità, assunzione della mia parte di rischio. Mi sono dovuto
alla fine arrendere all’evidenza che qui l’insieme dei gruppi
dirigenti politico-amministrativi, la parte prevalente dei mestieri e delle
professioni, la sub cultura e la mentalità dominanti, sono arroccati a difesa
dello status quo, odiano essere sollecitati e spinti verso un percorso di
sviluppo che li priverebbe del beneficio del torpore quotidiano, delle
abitudini di una esistenza che oscilla tra il vegetativo e il contemplativo, la
chiacchiera al bar e la partita a burraco, la pizza del sabato sera e il
pettegolezzo fatuo. Ma io sono Piero, imprenditore del sud orgoglioso di
esserlo. Ho alzato per legittima difesa il ponte levatoio e mi sono ritirato
dentro il mio castello a cinque stelle, curandolo come un gioiello e attrezzandolo
come un giardino dei piaceri e delle delizie, a disposizione di chi come me lo
sa apprezzare. Della mediocrità di certa gente, della meschinità
invidiosa di chi non è mai nato o è già fallito prima
ancora di tentare, dell’odio distruttivo per chi osa rischiare e prova a
volare alto, io mi sono rotto i coglioni.
Perché
io sono Piero, imprenditore calabro-lucano. Sono qui. Sono vivo. Non mi
arrendo.