Basilicata: la regione umiliata dal doroteismo del
PD
Arnaldo
Capezzuto, Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2014)
È una terra a cui sono affezionato per ragioni familiari. Ci vivo
pochi mesi all’anno. La mia sensazione è sempre la stessa: un grande popolo,
laborioso, generoso che non riesce a cacciare via una grigiastra cricca di
politiconzoli. Scrivo della Basilicata, di una grande
terra dal sapore antico, dalle tradizioni che magicamente sono passato,
presente e soprattutto futuro, dell’orgoglio identitario di gente che sa
soffrire con dignità e stoppa le chiacchiere recitando al momento giusto il
proverbio di chi ha già vissuto. È una semplicità disarmante che ti riempie la
vita, ma allo stesso tempo è una tremenda condanna che fa scappare via,
lontano. Sono almeno due le generazioni che sono state costrette a lasciare la terra
lucana. Ci si laurea da Napoli in su e poi strada facendo si
piantano le radici all’altrove.
La più famosa Dynasty familiare lucana porta impresso il cognome: Pittella.
È una sacra famiglia al cui vertice “politico” c’è e sempre ci sarà il grande patriarca Domenico detto Mimmì Pittella. Un arzillo ottantenne che sembra un Silvio Berlusconi ante litteram. Medico condotto, fondatore
di una famosa clinica, senatore, leader popolare, latin lover ma più che altro
arrestato, scarcerato, latitante, condannato in modo definitivo e poi graziato
dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Il mio amico e collega
Giuseppe Petrocelli da tempo battaglia e non riesce a pubblicare un libro che
narri le “gesta di eroi” di questa potente famiglia di Lauria. Un cognome che
ha dentro di se due nomi Gianni e Marcello, i figli “politici”, entrambi del Pd, di
don Mimmì. Nonostante Marcello, nella scorsa consiliatura regionale
dimissionaria fosse indagato (si attende a giorni la decisione dei giudici sul
rinvio a giudizio), nulla ha impedito che rovesciasse il tavolo, si candidasse
alle primarie e poi diventasse il nuovo presidente della Regione
Basilicata.
Quando si tratta di un Pittella, non c’è regolamento che tiene.
Tanto è vero che per far candidare Gianni per la quarta volta al Parlamento
Europeo, il
Pd ha dovuto approvare in direzione nazionale una deroga. Insomma in Basilicata il “Cambia verso”
di Matteo Renzi non vale, qui il verso è sempre lo
stesso. Un potere capillare, radicato, clientelare che ha i propri centri
nevralgici nella pubblica amministrazione in particolare nel comparto della
sanità, negli eterni lavori della Salerno-Reggio Calabria,
nei piccoli cantieri, nel settore dei rifiuti e nella creazione a tavolino di
progetti, iniziative che hanno solo la finalità di dare la sensazione che
qualcosa si muovi con l’inevitabile sperpero di denaro pubblico. Basti pensare
alla devastazione del territorio in Val d’Agri e a ridosso del parco del
Pollino con l’affaire giacimenti di petrolio e del buco delle scarse royalty
impiegate per lo più nel rifacimento degli assi viari distrutti dalle stesse
cisterne che trasporto il greggio.
È una classe politica marcia che drena consenso sulla disperazione
della gente e sullo svuotamento della parola futuro. Dinosauri e compari
piazzano nomi di comodo come in un’eterna partita a scacchi. La cabina
elettorale è una formalità. È un sistema dove tutto s’impasta. Perfino Beppe
Grillo ha dovuto
alzare bandiera bianca. Il Pd ha grosse responsabilità. È il partito che per
decenni ha “governato”