Vacanze al Sud.   La comunità e i suoi demoni

Famiglia tedesca in vacanza

Al bar, sotto la grande tenda, davanti al televisore che trasmette la partita, insieme ad altri singoli e gruppi c’è una famiglia tedesca in vacanza. Padre, madre e quattro figli tra i dodici e i sedici anni. La più grande dei figli è la ragazza, che sta seduta alle spalle del padre, una mano appoggiata alla sua schiena. Lo accarezza di continuo e delicatamente, con un affetto che non vuole però essere troppo  invadente. Il più piccolo dei ragazzi, dodicenne, sta beatamente allungato su ginocchia e petto del padre. Succhia tranquillo un ghiacciolo alla menta mentre segue la partita. I suoi due altri fratelli, di 13 e 14 anni, sono seduti più indietro uno a fianco dell’altro. Commentano la partita e si passano a vicenda noccioline e patate fritte. La madre, unica del nucleo dall’altra parte del tavolo, sembra essere dalla visione della partita totalmente presa, ma qualcosa mi dice – un vibrare improvviso delle ciglia, una piccola ruga che affiora sulla fronte -  che in realtà nulla le sfugge di ciò che le succede intorno, specialmente di ciò che riguarda la sua famiglia. Il padre, biondo, appare fisicamente più forte che bello; la madre, bionda, appare più bella che forte: il risultato sono i quattro figli uno più biondo, bello e forte dell’altro. Rappresentano la prima e fondamentale comunità naturale del consorzio sociale. Sono appagati del loro equilibrato stare insieme, ognuno per sé ma più vivo e vitale perché in relazione e funzione dell’altro. Una rappresentazione così esplicita di un gruppo famigliare  in stato di salute fisica, morale e affettiva rigogliosa, si coglie intera specialmente in vacanza dopo una giornata trascorsa al sole e al mare, davanti a una pizza, una birra e ad una appassionante televisiva partita dei mondiali di calcio.

Dalla famiglia ristretta alla comunità allargata

I problemi e i guai nascono quando il campo di azione e osservazione si allarga uscendo dal nucleo famigliare ristretto, e ci si avventura a considerare le vicende di un gruppo di famiglie che compongono una antica e consolidata comunità. Lì appare evidente come le dinamiche di relazione, i giochi di competizione e di rivalsa (i “te l’avevo detto io!” se non addirittura i “ ti faccio vedere io!”) imperversano.

Il primo e principale problema sono gli spazi ristretti, il vivere a vista e a gomito, quindi il pericolo di invasione, le interferenze, il controllo. Il secondo è generato da problemi di invidia, gelosia, competizione.  Il terzo ha a che fare con desideri, bisogni e appetiti smisurati rispetto a opportunità e risorse invece limitate. L’elenco potrebbe continuare, ma prima è necessario aggiungere che tali problematiche, una loro pratica di sufficiente  e positiva soluzione, o invece inadeguata e mancata, in una comunità ristretta si sono nel tempo accumulate fino spesso a degenerare e marcire.

La mancanza di esercizio e confronto paritario, la scarsa trasparenza e la difficoltosa assunzione di pubblica ed esplicita responsabilità, producono atteggiamenti e comportamenti di appropriazione e sottrazione rapace e violenta, di manipolazione opaca, vigliacca e furba. La comunità, nome che suona apparentemente piano, rassicurante e positivo, nasconde dentro la sua pancia demoni.

Compà Biasio e l’albero di fico

Qualche esempio può tornare alla comprensione utile. Compà Biasio possiede diversi alberi di fico. Uno in particolare costeggia paro paro un passaggio pubblico. Arrivato in agosto il tempo della maturazione dei frutti, compà Biagio si precipita ad avvolgere i rami carichi di fichi, troppo a portata di mano di chi si trova a passare, con teli di nera plastica traforata. L’albero dei fichi diventa così un inquietante e mostruoso monumento funebre, un mitico e simbolico albero primitivo posto a segnalare una sorta di rinnovata cacciata dal paradiso. Ragionando con alcuni amici del posto, e con compà Biasio stesso, che è persona per il resto amabile e civile,  si viene a sapere che nel luogo i confini di proprietà non sono esistiti espliciti e netti da sempre. Prima seguivano come traccia il percorso dei terreni diversamente coltivati. La configurazione del primo insediamento del paese, ora abbandonato (Piano degli Zingari), è al proposito conferma e testimonianza. E’ stato l’arrivo dei forestieri nel secolo scorso, che hanno iniziato ad acquistare a buon mercato case e appezzamenti di terreno, a introdurre l’applicazione rigorosa di confini di appartenenza e proprietà. Prima il mio e il tuo erano riassunti e assorbiti nel nostro, coincidevano con le parti che erano coltivate a ortaggi, vigna e grano, o attribuite all’allevamento di maiali, galline, conigli, pecore e mucche. Le differenze venivano compensate e superate da ciò che dettava il bisogno e il reciproco necessario scambio. Ora anche compà Biasio si vergogna un po’ del telo nero a coprire a lutto i succulenti fichi: ma “mi ero proprio stufato di non trovarne a un certo punto per me neanche uno!” E come dargli torto?

La restituzione degli antichi torti subiti

L’approfittare dell’opportunità per piegarla a proprio vantaggio non risponde tanto o soltanto a un bisogno reale, ma a logiche di rivalsa per penalizzazioni, umiliazioni e antichi torti   subiti. Scopo di un impegno nel sociale non è quindi principalmente o soltanto il buon risultato dell’iniziativa, quanto la lezione e lo smacco da restituire a chi precedentemente ti ha inflitto punizione e scacco analoghi. Una sana logica vorrebbe che, rispetto a un impegno assunto per realizzare uno scopo di utilità comune, tutti concorressero in modo da far pesare su ognuno una quota di fatica minore. Succede invece che, lamentando pretesti e improvvisi ostacoli, a lavorare duramente sia una minoranza, mentre gli altri assistono con occhio sornione e malevolo, aspettando e quasi desiderando l’insuccesso dell’iniziativa per gioire del fallimento di chi si è invece totalmente impegnato. (Ma s’altronde non è spesso così anche nelle comunità organizzate dentro una società economica e una azienda?)

Realizzare un progetto che per la sua piena riuscita implica il concorso e il supporto di tutti, diventa spesso opera ardua e complicatissima perché subentrano e prevalgono logiche per le quali: “io con quello non lavorerò mai!”; oppure: “quell’altro una volta mi ha fatto sgarbo e sgambetto, quindi io adesso lo frego e glielo restituisco!”.  O infine: “piuttosto che il merito della riuscita premi quella persona, quella famiglia o contrada, farò del mio meglio per remare contro, per impedire che l’impresa abbia successo e far fallire la baracca”.

L’acquazzone e l’arsura

Ci sono in una comunità tante e tali antiche ferite sommerse, tali rabbie sepolte, e odi e frustrazioni e secolari umiliazioni, e vendette così a lungo covate e preparate, che l’arrivo di qualche positiva goccia d’acqua, o anche di un intero temporale e acquazzone, si scioglie in sfrigolii e vapori come rugiada su una piastra arroventata. E nella pancia di una comunità ribollono tante e tali ambizioni e aspirazioni mai realizzate, tanti sogni e aneliti, tali ansie di affermazione e successo, che chi procura anche soltanto qualche spiraglio e occasione, qualche varco e possibile via d’uscita, chi si segnala come portatore di qualche speranza, diventa padre e fratello, maestro e salvatore.

Qui, tra queste antiche e ancora forti e coese comunità del Sud, arse e depresse forse anche per non essere mai state realmente accese, sarebbe ora che arrivasse il tempo di un passaggio dagli incendi devastanti dei boschi – segno spesso di rabbia e furia distruttiva, di depressione e incattivita frustrazione – all’incendio politico agito e finalizzato nelle piazze: segno dell’ avvento di un tempo di speranza e di civile rivoluzione. Quarant’anni fa, nei primissimi Anni Settanta, con una parola d’ordine semplice ma icasticamente incontrovertibile, Lotta Continua lanciò un giornale e una campagna di lotta politica nel Sud, per invitarlo a reagire e a uscire dalle sue ancestrali soggezioni e  miserie, intitolati che il tempo si avvicina. Era il tempo della rivolta di Reggio e del suo rione Barre di cui appunto ricorre quest’anno il quarantennale. Oggi, a segnalare in positivo qualcosa di simile, che ripropone se non proprio la rivolta almeno l’iniziativa dal basso e la speranza, c’è soltanto Nichi Vendola e le sue “fabbriche”.    Avrà ragione Giorgio Ruffolo che in un elzeviro su La Repubblica amaramente conclude che, per quanto lo riguarda, per il Sud di questo Paese - ma se è per questo per il Paese intero,  e per i destini di un capitalismo liberale e democratico - il tempo oramai è definitivamente consumato? 

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