Noterelle in margine alla presentazione di un libro.
Il libro – “Maratea. Il sogno di una cosa”, del
sottoscritto - è stato presentato in Acquafredda,
frazione di 200 abitanti di Maratea, nello spazio antistante la scuola
elementare chiusa e abbandonata, da una associazione
culturale recentemente costituita: Scuola e Vita. L’associazione conta 35
soci iscritti, e finora si è resa meritoria per alcune iniziative: ad
esempio una pubblica e partecipata riflessione su Costabile Carducci, martire
risorgimentale di Capaccio ucciso con i suoi compagni il 4 agosto del 1848
proprio ad Acquafredda da abitanti del posto
capitanati da un prete borbonico di Sapri. E la partecipazione di massa a pubbliche manifestazioni per evitare
la chiusura della Statale
Per preparare la presentazione del libro su temi e problemi che
riguardano oggi Maratea , i soci
dell’associazione si sono per giorni gratuitamente impegnati - siamo in
agosto, tutti loro lavorano in questo periodo più che nel resto
dell’anno - per pulire, predisporre, attrezzare, addobbare, illuminare e
rendere agibili spazi da tempo abbandonati. L’impegno
volontario gratuito in iniziative e progetti di crescita sociale e civile: ecco
un indicatore importante per misurare lo stato di salute di una
comunità. L’esatto contrario dei corsi di formazione fantasma e
delle troppe infondate e indebite pensioni di invalidità
che veicolano dipendenza e subalternità.
Alla presentazione, iniziata alle nove di sera, terminata dopo
l’una, hanno partecipato un centinaio di persone: donne e uomini, adulti
e ragazzi, persone nate e vissute nel luogo e altre amanti delle sue bellezze e
che d’estate abitualmente tornano. A presentare il libro è stato
Salvatore Faraco, un acquafreddaro
doc, tecnico esperto nel ramo edilizio e politico di antico corso, cattolico credente, persona socialmente
responsabile ed eticamente sensibile, cittadino del
mondo. La sua presentazione, la generosità e l’impegno con cui
l’ha preparata ed esposta, meriterebbero un
racconto a parte. Mi riservo di farlo in seguito, qui lo
spazio è, ahimé, tiranno.
A intervenire
nel dibattito sono stati in nove, me compreso, che dell’insieme ho tenuto
le fila e il percorso. Il sindaco di Maratea, Mario Di Trani,
ha concluso. Se posso proporre
qualche osservazione a commento, inizierei proprio dall’ultimo
intervento, quello del sindaco. Per poi proseguire con altre annotazioni
personali. Intanto, mi è piaciuto che il sindaco abbia rintuzzato alcune
insinuazioni che anonimamente circolano contro il libro (“ è un libro contro Maratea e i marateoti!”),
affermando che chi ha scritto su Maratea quattro libri – e ne ha in
preparazione un quinto – a Maratea non può che volere bene. Altrimenti avrebbe scelto di impegnare tempo ed energie in
qualcos’altro. E mi sembra necessario segnalare anche un’altra
affermazione del sindaco, che ha tenuto a precisare che legge con qualche
interesse le mie riflessioni che appaiono sul Quotidiano: sempre, bontà
sua, dense di annotazioni stimolanti.
Molte altre sono state le osservazioni di Mario Di Trani, che non si è tirato indietro rispetto alle
tante e argomentate critiche mosse negli interventi della serata. Anche per questo ci vorrebbe un articolo a parte. Scelgo di
riportarne almeno un paio: la prima, là dove il sindaco ha evidenziato
la difficoltà ad amministrare un territorio e una città come
Maratea, frazionata in tante unità abitative lontane una
dall’altra – là dove gli abitanti delle singole frazioni
dichiarano di essere diretti a Maratea quando si dirigono
al suo centro storico: come se gli abitanti delle periferie – acquafreddari, cersutari, massaioli – non si sentissero realmente marateoti. Questo è sicuramente un dato di separatezza e lontananza territoriale: ma siamo sicuri che
esso non sia stato da sempre utilizzato da politici e amministratori a
vantaggio di alcuni e a svantaggio di altri? Infatti:
quanti sono i sindaci, nella storia di Maratea, originari da qualcuna delle
frazioni?
Una seconda osservazione del sindaco merita un appunto, quella in
cui ha sostenuto che, stanti difficoltà e complessità del compito
di chi amministra, la decisione possibile non
può che essere quella - volta per volta, sulle varie questioni - della
ricerca di un “compromesso onorevole”. Ora, sul criterio è
difficile dissentire. A patto però che si precisi un punto: come
può la comunità capire e condividere l’applicazione
corretta di questo criterio, se non viene posta nella
possibilità di coglierne in trasparenza l’intero percorso? Se
comitati di iniziativa e protesta per le tante
omissioni e disfunzioni, se le pro loco e le associazioni vengono troppo spesso
vissute come ingombro e disturbo, come si legittima il criterio del
“compromesso onorevole”: sull’ipse dixit? Sull’accettazione acritica di una insindacabile Autorità? Ma
è così che si contribuisce a far crescere la comunità, o
non c’è piuttosto la tendenza a fare il meno possibile
perché la comunità cresca in informazione e conoscenza,
presupposto necessario per l’esercizio di una capacità di
valutazione consapevole e critica? Altrimenti detto: perché, se non
esattamente per questo, il popolo dei cittadini si è negli
ultimi anni disamorato, qui come altrove, di questo modo blindato e
apicale di fare politica?
Sugli altri interventi mi permetto solo alcune osservazioni, anche
perché ognuno di essi meriterebbe per sé
un pezzo autonomo. Alcuni di essi sono stati fatti da
tecnici (l’architetto, l’ingegnere, l’economista), altri da
abitanti del luogo. I tecnici (potentini e napoletani) hanno attinto alle loro
esperienze e competenze professionali per dare al dibattito un contributo di
sicuro interesse. Forse il limite che può essere loro (sommessamente) attribuito è quello di avere manifestato, nel loro
approccio, un condizionamento che proviene proprio, paradossalmente, dalla loro
competenza professionale. E cioè l’essere
tecnici vincolati a un interesse personale e privato, per carità,
legittimo, che però li vede molto sensibili al mercato, alle proposte e
agli interessi dell’interlocutore istituzionale pubblico. Sicuramente
l’autonomia e la libertà di pensiero assoluta non esistono: ma
è evidente che esse si modulano in maniera diversa a seconda se chi
parla è soggetto o meno a vincoli di interesse
con le decisioni dell’oggetto analizzato. Certo, nessuno è
completamente disinteressato: ma c’è chi lo è più,
chi meno. E la ricerca di una verità condivisa, del
rispetto di regole a difesa del bene pubblico, che non sia soverchiato e
sottomesso a quello privato, non è poi sfida così persa in
partenza.
Poi ci sono stati gli interventi di alcuni
abitanti del luogo, e lì è emersa netta e dura
l’insofferenza per il punto di vista dei professionisti esterni
intervenuti. I nativi hanno reclamato maggiore attenzione sincera per i
problemi della loro realtà, più disponibilità e
umiltà nell’agire e interagire. Meno supponenza
e puzza al naso, maggiore disponibilità a rimboccarsi le maniche.
Ciò che ho creduto di cogliere in questi interventi
è un persistente gap in termini di diffidenza, sfiducia e perfino
risentimento che ancora esiste nel rapporto tra nativi ed esterni, tra abitanti
cresciuti nei luoghi e turisti innamorati della loro bellezza: tra le esigenze
di chi vive un luogo e un potere esercitato altrove, in stanze riservate e
segrete. Come se ci si sentisse usati e snobbati, soggetti a
supponenza e sufficienza, a volte perfino a disprezzo e disistima.
Insomma, troppe identità frazionate e contrapposte: qui serve un
percorso di confronto, avvicinamento e integrazione.
Rispetto al mio libro, in molti hanno detto
che oscilla tra la poesia e una critica a volte troppo dura ed esagerata su
difetti, inadempienze e ritardi storici della politica e degli amministratori.
Confesso che a me è piaciuto chi, nel suo intervento, ha sostenuto che
poesia significa letteralmente: fare. E che non sarà
l’economia a salvare il mondo, ma l’amore per la bellezza.
Ci tengo a segnalare che la presentazione del libro non ha avuto nulla del
consueto rituale. Il libro ha funzionato da stimolo per introdurre forma e
svolgimento di una pubblica assemblea. Si è parlato a turno e
liberamente dei temi e dei problemi di benessere/malessere, di
sviluppo/sottosviluppo delle frazioni e delle comunità di Maratea, delle
loro cause storiche, delle possibili soluzioni. Questo, a mio modo di vedere,
significa contribuire a fare buona politica. Emozioni e passioni incluse,
tipiche di un salutare, necessario psicodramma. Un’ultima osservazione:
del libro nel corso della serata sono state vendute
trenta copie, il cui ricavato è andato a favore delle sguarnite casse
dell’Associazione Scuola e Vita. Una copia è stata acquistata
anche da chi l’anno scorso, per gli articoli usciti in anteprima sul
Quotidiano della Basilicata, mi ha tagliato le gomme dell’auto. Non
c’è qui lo spunto per un intrigante sviluppo da noir
poliziesco?