Il relativismo etico e i suoi (floridi e marci) frutti.
Anni fa, era il 2003, è uscito per le edizioni Egea un mio
saggio intitolato “L’impresa etica e le sue sfide”. Alla sua
stesura ero stato stimolato anche dalla partecipazione a
un convegno – era il 2001, lavoravo alla Coop
nazionale – organizzato su quel tema dalla Università Bocconi, cui
aveva partecipato in pompa magna e con un entusiastico intervento Maroni, allora ministro del Lavoro. Scopo ufficiale dei
lavori del convegno era la discussione e il varo di una batteria di parametri e
indicatori finalizzati a misurare il rispetto da parte delle imprese, nei loro
comportamenti, di standard etici. Alle imprese che li avessero
rispettati, il ministro prometteva riconoscimenti, corsie preferenziali
negli appalti pubblici, agevolazioni. L’idea, per quanto ambigua e piena di ombre, mi era sembrata interessante. Si voleva infilare
alle aziende un termometro per misurarne temperie e temperatura etica? Ma chi misurava chi, e per quantificare cosa: la responsabilità
sociale, l’anima? O si voleva soltanto fare un po’ di ammuina e vetrina per salvare
faccia e coscienza? Sapete, erano i tempi dello scandalo Enron,
l’attenzione dell’opinione pubblica era
allarmata. Poi, negli anni successivi e fino ad oggi,
le cose sono andate come sono andate – e non certo in meglio, anzi. Per
ricordarne qualcuna di quelle viste e conosciute da vicino, nel 2005 è
scoppiato nella Lega delle Cooperative il controverso caso BNL-Unipol.
Ho cercato allora, dall’interno e come ho potuto, di esprimere il mio
dissenso (sto leggendo un saggio interessante di Mario Frau,
“La Coop
non sei tu”, in cui sostanzialmente mi riconosco). Infine oggi leggo cosa
si è detto nell’annuale meeting di Comunione e Liberazione a
Rimini, a che spiaggia è approdata la stagione che anche nel mondo
cattolico, oltreché nelle imprese private e
pubbliche, era partita all’inizio del Terzo Millennio con il richiamo
all’etica della responsabilità sociale: e cioè
l’attuale pubblica, irridente invettiva, avallata anche da voci
prestigiose come quella del cardinale di Venezia, contro il cosiddetto
moralismo di chi nel modo di fare affari e politica del berlusconismo
non si è riconosciuto e non si riconosce. In particolare, mi ha colpito
ritrovare nelle argomentazioni addotte in quella sede –vedi le parole di
una delle eminenze grigie di quel movimento, e cioè
di Gian Carlo Cesana, riportate nell’articolo
di Gad Lerner apparso su La Repubblica - tutte
imperniate, attraverso la lettura delle ultime righe de “In nome della
rosa” di Umberto Eco, sull’uso e abuso del concetto di
verità.
Ebbene, alle tante cose lette al proposito in questi giorni vorrei
aggiungere qualche mia riflessione, perché anch’io, nel mio
piccolo, mi trovo ad affrontare in questi giorni argomentazione insidiose
simili. Ma non provenienti da sponde di affarismo
incorniciato dalla fede religiosa,ma da parte di interlocutori incardinati in
ambito politico laico di orientamento non ciellino,
bensì piddino. L’asse del discorso
è infatti più o meno lo stesso: in presenza
della mia critica all’ideologia spregiudicatamente praticata del business is
business, a prescindere da implicazioni morali, compatibilità
ambientali, rispetto di regole e norme, mi si risponde: tu sei un idealista e
un moralista presuntuoso. Ti credi portatore di qualche verità
superiore, pretendi per questo di essere diverso e
migliore, vieni a criticare e predicare con burbanza e spocchia, mentre qui
– il riferimento è Maratea e la Basilicata, ma potrebbe
essere benissimo l’intero Paese, e oltre – la verità vera
è che bisogna comunque fare. Con gli uomini, i mezzi,
le risorse e le opportunità che ci sono: prendere o lasciare. Oppure: sì, sì, tu sei bravo a raccontarla: la buona
politica, la comunità consapevole e responsabile, il rispetto per
l’ambiente, la trasparenza e la coerenza tra valori e principi, decisioni
e comportamenti. Ma qui intanto bisogna
produrre lavoro e reddito, pane e companatico. Qui non si campa di ricerca
della verità, di supponenza e saccenza, di
richiamo al rispetto delle regole e di moralismo virtuoso. Qui si lavora sodo,
si procede cercando sempre il compromesso onorevole, e questo è
l’unico modo possibile di fare politica utile e concreta. Allora tu gli
rispondi elencando le occasioni perse, gli arretramenti e le sconfitte, i
guasti e le derive, gli parli della necessità di mettere in discussione
l’attuale dominante e disastroso modello economico-produttivo e di
trovarne uno diverso, di rinnovare merito e metodo: loro ti rispondono
appellandosi alle condizioni del contesto, alle
logiche stringenti e alla necessità delle mediazioni e dei compromessi.
Tu per loro sei la fastidiosa anima bella, il velleitario moralista: loro sono
i titolari unici del principio di realtà. Se le cose non vanno o vanno
male è sempre colpa di qualcuno o qualcosa d’ altro:
la crisi globale e, specialmente, il massimalismo nefasto di chi vorrebbe
provare a cambiare. Poi arrivano a pioggia gli arresti per associazione a delinquere – e abbiamo un premier il cui nord della
bussola nel far politica è: non voglio finire in galera! Dice: che
c’entra? Oltre a essere moralista non sarai mica
anche giustizialista? E lì capisci che per chi
ha inteso e intende le regole e le leggi come intollerabile impedimento, e da
tempo persegue insieme ad altri privilegiati il fine
del personale e privato arricchimento, costi quel che costi, tutto quello che
vi si oppone è mala fede, bieco moralismo, infame giustizialismo.
E ti arrendi al fatto che la cultura del berlusconismo
è potuta diventare egemone anche perché parti cospicue dei
vertici della Chiesa, e delle forze politiche che si richiamano al centro sinistra,vi hanno da tempo aderito.
C’è una tenacia nel non volere mollare da parte di una
generazione, una cordata, una casta, che fa capire come mai Renzi,
sindaco di Firenze, intervistato su La Repubblica, così se ne sbotta: basta con
gli eterni Bersani e Fassino,
Veltroni e D’Alema. Avanti con i nuovi – e non nuovisti,
perché innovatori e amministratori concreti – Chiamparino,
Zingaretti, Vendola.
Ragazzi, questa si presenta proprio come una bella partita…
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