Una cena a Roma imbandita in un bel ristorante lucano

Il nostro ospite e anfitrione, Sandro Arleo, è originario di un paesino lucano sul Pollino nei pressi di Sant’Arcangelo, e ha imparato il mestiere di cuoco nei quattro anni trascorsi alla scuola alberghiera di Maratea. Sandro Arleo è uomo semplice e schietto, nel suo lavoro capace ed esperto. Ha ricevuto l’altra sera gli oltre cento ospiti, li ha tutti accompagnati al loro tavolo, ha guidato la serata a voce diretta e viva e dall’amplificazione del microfono, ha posato felice nelle decine e decine di foto ricordo, e alla fine, dopo avere presentato in gran sfilata i suoi collaboratori di sala e cucina, moglie e figlio di dieci anni compreso, si è simpaticamente esibito in un duetto al karaoke con l’ospite d’onore, il Presidente della Regione Basilicata De Filippo.

Nel suo mestiere Sandro Arleo ci sa fare, mira intelligentemente a far diventare il suo bel ristorante – ubicato nel quartiere Pigneto, sulla Prenestina, in via Alberto da Giussano (il ristorante si chiama Il Gabbiano) – il punto di ritrovo prediletto dai lucani di Roma, o che a Roma approdano.

Il menù della cena non ha trascurato nessuno dei piatti lucani tipici. Tra gli antipasti, tanti e così buoni che io lì mi sarei sazio fermato, c’erano ovviamente i peperoni cruschi e le polpettine di baccalà, la soppressata , la salsiccia lucana e il caciocavallo di Moliterno, i lampascioni singoli e in frittata, il baccalà in fiore di zucca e i peperoni ripieni ca’ mullica. Sono poi seguiti, come primi, i rascatielli con calamaretti e la pasta rafanata, e poi, dopo un delizioso sorbetto al limone, i secondi: dal capretto alla castronovese al purciellu ca rosa marina. In gran finale, come dolce, i calzoncelli di Castronuovo, che io da gran ignorante manco sapevo che esistessero. Ad aiutare a scendere il poderoso e squisito tutto ci hanno ovviamente pensato la santa acqua Gaudianello di Monticchio, il moscato del Vulture e un corposo e generoso Aglianico. E volete che alla fine mancasse l’Amaro Lucano? Insomma, tre ore di gloriosa traversata della tipica gastronomia lucana: che un terzo, in quantità, sarebbe bastato. Ma si sa, in quanto a conviviale ospitalità, i lucani non sono secondi a nessuno.

Al mio tavolo, io che dei numerosi presenti ero di origine non lucana probabilmente l’unico, ho incontrato e conosciuto un gruppo originario di Potenza che però, dopo essersene allontanati ancora bambini per approdare a Roma, in Basilicata non sono più tornati. Ho discretamente insistito per farmi spiegare il motivo, ma mi è rimasta insoddisfatta la curiosità di saperlo. Ci sono vicende e ragioni che a volte è il caso di non indagare troppo.

Il presidente De Filippo, oltre a deliziarci del tutto inaspettatamente con il suo ben intonato canto, ci ha raccontato di essere appena rientrato da un viaggio in Argentina, dove ha incontrato i rappresentanti della locale comunità lucana. “Noi lucani siamo disseminati nel mondo, e forse più numerosi altrove che non oggi nella nostra Basilicata. Ma almeno possiamo dire che noi il mondo l’abbiamo proprio fertilizzato…”, ha sostenuto il presidente con piglio soddisfatto. E io, che sono veneto, non ho difficoltà a capirlo. Mi ha ricordato quel passo di un saggio nel quale il grande Francesco Saverio Nitti sostiene che l’emigrazione non produce solo lacerazioni e sofferenze, ma anche un doppio effetto positivo: da una parte il ritorno alle famiglie delle costanti rimesse finanziarie, dall’altra la professionalità di un nuovo mestiere spesso appreso ex novo e l’esperienza sprovincializzante tipica di chi emigra.

Sul presidente della Regione Basilicata mi permetto di fare una osservazione. E’ molto democratico, nel senso che circola a proprio agio tra gli oltre cento lucani ospiti di Sandro Arleo, si fa fotografare paziente in gruppo e canta con voce stentorea e sentimento ben modulato. Ma, in verità, quando ti parla a distanza ravvicinata hai come la sensazione che i suoi occhi siano rivolti lontano, e in tutta la serata di un pranzo in festa e allegria non gli ho visto fare un solo sorriso. Si direbbe che è lì partecipe e ben presente, ma allo stesso tempo altrove e lontano. Sarà effetto e risultato del lungo esercizio nell’impegnativo ruolo?

Ad affollare sale e tavole c’erano altri personaggi stimabili: il critico letterario Arnaldo Colasanti, il critico d’arte Giuseppe Appella, il presidente dei Lucani nel Mondo Antonio Pilieri, il giovane presidente del VI Municipio romano di cui mi è ahimé sfuggito il nome. La domenica mattina , a completare la rimpatriata lucana, sono stato ad ascoltare, alla Casa di Dante di piazza Sonnino, una Lectura Dantis fatta da Pasquale Stoppelli. Nella ampia e severa sala eravamo raccolti in oltre centocinquanta. In oltre un’ora e mezza Pasquale ci ha trasmesso, con sapiente oratoria, tutta la sua scienza e competenza sul Canto del Purgatorio prescelto. Ho pensato con orgoglio che noi veniamo anche da lì, quelle sono le nostre migliori origini. Che qualcuno ogni tanto ce lo rammenti è una vera e propria grazia ricevuta, in un’atmosfera solenne e quasi sacra, da laica domenicale messa. Accanto a me c’era una signora di un’età tanto avanzata da apparire indefinita. Leggeva e compitava i versi di Dante come se fossero le ultime parole della sua vita. Dall’altro lato sedeva un giovane universitario che ascoltava rapito con gli occhi chiusi, e alla fine dell’esposizione la bocca gli si è allargata in un estatico sorriso, e dalle sue labbra è uscito un borbottio che ho così decifrato: grazie professore, lei è proprio un dio!

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