Vacanze al Sud. Una
serata a Scario.
Arrivate a Scario a sera inoltrata di uno
dei primi giorni di agosto. Parcheggiate la macchina,
vi avviate sul lungomare verso il ristorante che vi hanno consigliato. Sono le dieci di sera, al ristorante non c’è
letteralmente nessuno. Pensate a qualche complicazione imprevista: il cameriere
vi conferma che è tutto a posto. I clienti ospitati nell’arco
della serata sono stati cinque, voi siete il sesto. La cosa che
impressiona è che il ristorante, una piattaforma in
legno sul pelo dell’acqua lungo la passeggiata verso il faro, regala una
vera e propria esperienza mistica.
Siete sotto il livello della strada, a quell’ora
pedonalizzata, a contatto diretto con lo sciabordio di un’acqua
trasparente e limpida. Il golfo di Policastro
è a portata di naso e di sguardo nella sua interezza. Davanti a voi
appare il profilo della prediletta Maratea. Alla vostra sinistra brillano le
luci di Policastro e Capitello, di Villammare e Sapri, e, dopo Acquafredda, Cersuta e Maratea,
ecco distinguersi perfettamente Tortora e Praia, Scalea e ancora più
giù Diamante, nella profonda Calabria. Uno sciame di luci
disposte ad arco sul mare a formare una vera e propria fantasmagorica collana.
Siete sul bordo di una marina totale, fuori dal
mondo costruito e trafficato. Dal
porto esce
brillante una scia luci. Sono barche che partono per la pesca notturna.
Scivolano ondulando che sembrano enormi lucciole, una più bianca e forte
a prua, l’altra dietro più piccola e azzurra. Nel buio della
notte, gli scafi delle barche invisibili, le luci vaganti appaiono sospese nel
vuoto, misteriose e a sé stanti. Sembrano anime migranti.
Ve ne state in contemplazione riconoscente e
beato: e siete solo.
Qualcuno dei camerieri avrà la lebbra? Il cibo servito
sarà condito al cianuro? Macché,
è tutto perfetto e all’altezza. I camerieri sono ragazzi di Sala Consilina, studiano architettura a Napoli, sognano di
andarsene a vivere e lavorare a Berlino. Qui – bisbigliano guardandosi
intorno costernati – qui per
i giovani non c’è futuro. Sono svegli, hanno lo sguardo tra il dolce e il
furbo e portano l’orecchino. E il cibo servito
è veramente buono. E allora, perché
questo deserto? Il proprietario, quarantacinquenne ingegnere di Scario rientrato da Firenze dopo un periodo di lavoro, mi
racconta che quel ristorante a pelo dell’acqua è stato il suo
sogno fin da bambino. Ora c’è riuscito, ha lasciato la professione
e il mondo dell’impresa, ha combattuto contro il pregiudizio e
l’ostilità di parte dei paesani, e alla fine ce
l’ha fatta, ha aperto. Ma ora, in agosto,
i clienti si contano sulle dita di una mano. La crisi? Sicuramente anche. Ma pure un pubblico dell’hinterland napoletano di
bocca buona e grana grossa che ancora ad apprezzare non è stato educato.
“Nella piazza davanti alla chiesa, dall’altra parte della
passeggiata – mi spiega l’amico ex ingegnere
e neo ristoratore – hanno aperto una paninoteca con tovaglie ai tavoli di
carta e sedie di plastica: un obbrobrio.
E’ sempre piena, così come le gelaterie. Ma la gente che in
questo posto magico
arriva non è capace di cogliere – anzi sembra
proprio farsene intimidire – la gioia di questa esperienza
mistica”. E io che l’ho sperimentata posso
confermarlo.
Poi faccio una passeggiata sullo splendido lungomare fin sotto la
chiesa. E devo confessare di essermi imbattuto, forse
perché ancora sotto l’influenza della precedente esperienza
mistica, in una quantità spropositata di gente ai miei occhi
mostruosamente brutta. Certe famiglie di obesi dal
nonno al nipotino, certe ragazze da abbracciare piangendo per il degrado
deprimente del loro corpo. Ne ho vista una incongruamente
vestita stile far west che forse arrivava con i capelli vaporosi ai
centocinquanta centimetri, ma solo perché poteva contare sui venti
aggiuntivi dei tacchi. Deve essere che i tempi brutti rendono gli umani
particolarmente depressi e brocchi. O forse sono solo
i miei occhi.
Oltrepassato il campanile della chiesa, delizioso nella silhouette
slanciata e dall’interno illuminata, sono
arrivato alla fine della passeggiata. E lì mi sono imbattuto in una
copia, appoggiata su una base di roccia, della statua del ragazzetto di
Vincenzo Gemito, quello
che sospeso acrobaticamente si torce a guardarsi sotto il piede
dove si è conficcata una spina. E il corpo del ragazzetto che sgorga dal
buio è di una tale grazia armoniosamente offerta, nella sua postura
ingenuamente maliziosa, da indurre al pensiero che Scario
sia in questo modo del tutto degnamente rappresentata:
l’esperienza mistica goduta al ristorante all’altro capo della
passeggiata sul pelo dell’acqua, le gigantesche lucciole bicolori a
volteggiare sul mare, il campanile con la punta aguzza e illuminata da fiaba,
la statua del ragazzetto di Gemito che provoca intimamente in condivisione
estetico/estatica anche il vostro.
Questa è stata, della serata a Scario,
la meraviglia. Tutto il resto, credetemi, è soltanto paccottiglia.