Vacanze al Sud. Terrazza sul mare.

Non c’è posto migliore di un luogo pubblico  per misurare alcuni mutamenti sociali in corso. La terrazza di un albergo sul mare, per esempio. In essa confluiscono singoli e coppie, bambini e famiglie, solitari e comitive. Insomma, un palcoscenico rappresentativo di tipi, caratteri, parti in scena e modalità espressive e relazionali tra i più intensi e significativi.   Starò invecchiando anch’io, ma mi sembra che molti dei mutamenti in corso, il loro senso complessivo, siano purtroppo peggiorativi. Ad esempio, per quanto riguarda l’uso della voce nel suo spettro di modulazioni, si direbbe che siamo diventati  all’improvviso tutti sordi: non si parla più, si grida. Sarà perché è aumentata  la voglia di farsi sentire a tutti i costi? Sarà perché si teme di non essere più realmente ascoltati? Comunque, io trovo ci sia in atto agito ed esibito l’intero campionario di voci stentoree, squillanti, impetuose e rimbombanti, che non si direbbe che ci troviamo su una terrazza venti metri per venti, ma su uno sterminato stadio. Qui sta dilagando un urlato e spudorato protagonismo che metà basterebbe. E in un luogo pubblico, in vacanza, rilassati, seminudi e autenticamente se stessi, tutti si sentono autorizzati – finalmente! -  a rompere gli altrui timpani.

Non bastasse, ci sono i telefonini. Dio li benedica, fanno parte del necessario progresso. Ma a me pare, dal mio personale osservatorio,  che le telefonate realmente necessarie non siano più di una su dieci. Le altre rispondono a pulsioni diverse, ad esempio la brama di mostrarsi, esserci, essere visti, esibirsi, sentirsi collegati e farlo  imperiosamente sapere al mondo intero. Leggendo la pagina di un giornale, o di un libro, capita di essere continuamente disturbati e costretti a seguire il racconto minuzioso di affari privati di persone che non si conoscono, e la cui voglia di conoscenza viene immediatamente spenta proprio da questa imposta valanga di minutaglia di pettegolezzo privato. In più, e in peggio, alla mia osservazione pare che il cellulare sia usato in evidenza come un totem che ripara da insicurezze e imbarazzi: quando qualcuno non sa che fare, si finge concentrato a smanettare sulla minuscola tastiera, a leggere o inviare sms strategici e decisivi per chissà quali trame. Le ragazze poi attraversano la terrazza diritte e concentrate sul piccolo schermo portatile come se per loro lì si decidesse – ora o mai più! - l’amore di una vita. Ma si renderanno mai conto di quello che si perdono intorno – non mi riferisco ovviamente a me, ma alla bellezza del paesaggio – e di come sollevare lo sguardo servirebbe a sollevare il loro spirito?

Rischierò l’accusa di essere un lombrosiano, o un maniacale fisiognomista  spinto, ma osservazione e ascolto – perché costretto! – di toni di voce e mimiche  che in un luogo aperto al pubblico continuamente si colgono, non sono affatto gradevoli. Spesso trasudano arroganza, strafottenza, scarsa o nessuna attenzione al fatto di essere in pubblico, un protagonismo grossolano e becero. Una obesità deforme dello spirito che spesso fa paio con quella del corpo.  E ciò che colpisce di più è la diffusione omogenea e trasversale di questi comportamenti: dai bambinetti che quando chiedono un gelato lo gridano ai quattro venti, come se fossero le trombe del giudizio universale, ai nonnetti che rispondono con barriti densi di cigolii e legnosità disarmoniche da ricavarne un allarme angosciato.

Il mare davanti è per fortuna immoto e limpido come un lago, la collina alle spalle è ricca di verde rigoglioso – dio! speriamo che quest’anno non ci siano incendi! -, la montagna alle spalle cade con le sue aspre falesie a picco sul mare da mozzare il fiato. Solo noi umani sembriamo non godere di uno stato di benessere equilibrato. Gridiamo invece di pacatamente conversare, urliamo al cellulare banalità a chi è lontano, invece di fare attenzione e comunicare con chi ci è vicino. Facciamo ricorso a uno spasmodico roteare di mascelle e pupille come se qualcosa di ingrato e violento premesse per  uscire. Si direbbe che anche le vacanze  la dicano lunga  sul momento non felice di questo Paese.

Poi arrivano i giovani camerieri a offrire i loro servigi: lo fanno con discrezione e garbo che ancora ha il sapore antico delle famiglie e delle comunità dell’entroterra lucano da cui vengono. Bisognerebbe che molti cui benessere e ricchezza hanno fatto perdere la bussola imparassero da queste facce asciutte ed essenziali, da questi gesti parchi e funzionali, da questi sguardi attenti e non invasivi, da queste voci sobrie e modulate. L’impressione mia è che questi ragazzi professionalmente ineccepibili, trasferiti rapidamente dai secoli della campagna alle dimensioni dell’internazionale turismo moderno,  si rendano conto di tutto, non sfugga al loro sguardo niente di quel che di arrogante e volgare a volte succede intorno. Ma pazientino silenti come chi ne ha viste troppe, e si dicano: passerà anche questa…

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