Voci nella notte
La notte estiva è limpida e leggera, il cielo stellato, l’aria
profumata. In basso, sul mare, tremolano le luci delle lampare. In alto, di
fronte, dall’altro lato del canalone, una famiglia sta cenando. Sono
riuniti intorno al grande tavolo sul terrazzo: il
vecchio padre con la moglie e i figli maschi, le rispettive mogli, la squadra vociante dei loro figli. Il
silenzio della notte rende voci e rumori dell’affollata scena nitidi e pienamente
percepibili.
Dentro la grande famiglia sono ampiamente
rappresentati sessi, età,
posizioni, ruoli, generazioni. Il
clima è di gioiosa festa, le portate e le libagioni, che si immaginano
abbondanti e varie, liberano irrefrenabili umori, sentimenti, pulsioni,
effusioni. L’incontro è tipico di quelli estesi e generali dei
consueti ritorni alla casa paterna per vacanze e ferie.
Seduto sotto il pergolato di casa a godermi la sontuosità di
un cielo tempestato di stelle e galassie che in città te lo puoi scordare,
senza averlo scelto né voluto vengo
attratto e irretito dal palcoscenico della cena
che a cento metri in linea d’aria si sta allegramente consumando. Delle
persone convenute intravedo solo le sagome tra gli archi del terrazzo, ma
percepisco nitidamente l’intera gamma sonora ricca di voci, esclamazioni,
risate, richiami, brindisi, rimbrotti, urla e applausi. Nel quartiere romano
dove vivo il contatto diretto con uno spettacolo simile è del
tutto inimmaginabile.
La patriarcale famiglia meridionale è lì riunita al
gran completo a esporre la sua anima, la sua eterna e fondamentale sostanza.
Ciò che innanzitutto colpisce è la coralità fragorosa,
molteplice e simultanea: il flusso sonoro è così squillante e
denso che nessuno sembra tacere mai. Ma a dominare non è una esagerata confusione, perché vibrazioni e
modulazioni delle voci interagiscono, si condizionano e influenzano come in un
oratorio di Bach. Certo, non sempre il risultato è così armonico,
del concerto fanno anche parte strilli, dissonanze e cacofonie alla Stockhausen. E però, affinando l’ascolto,
appare presto evidente che la polifonia famigliare ha il suo
asse in un basso continuo che ne modella e configura
La voce del vecchio è inconfondibile e immediatamente
identificabile. Canna d’organo grave e baritonale, resa aspra e granulosa
dalle migliaia di sigarette fumate nel corso della vita, ma più ancora
da un incontestabile e incontestato esercizio di autorità e potere, il vecchio non parla molto, anzi, si
direbbe più che altro un giudice dell’Antico Testamento che
ascolta, soppesa e valuta. A parlare sono i figli, a turno, a gara, sovrapponendosi
e scavalcandosi in preda a una urgenza di primato e
riconoscimento che appare essere il vero sotterraneo tormento della serata.
“Papà” è in effetti la
parola più pronunciata, e più che dai bambini piccoli è
ripetuta come invocazione e richiesta di attenzione dai figli adulti tra di
loro in competizione. Il centro
motore, il perno e il rovello del convivio famigliare sta tutto lì, in
questa famelicità dei figli in gara per
ottenere il consenso paterno: che si concede con parsimonia, gode del potere
conferito mantenendolo sospeso e prolungandolo all’infinito. Insomma, nella tradizionale e numerosa
famiglia proletaria lucana le donne fanno figli, preparano il cibo, tengono in
ordine la casa; i figli maschi si cimentano e accaniscono nella conquista del
primato ereditario; il vecchio padre troneggia come un Giove nell’Olimpo
che centellina la sua regale condiscendenza scagliando un fulmine, se del caso,
a ribadire l’indisponibilità del suo scettro.
Degli scambi vocali di quella serata non mi è
rimasto impresso alcun contenuto, ma ancora permane in me folgorante il senso e
la sostanza di una ferrea gerarchia di relazioni e dinamiche di tributo e
scambio. Io penso che raramente una lezione accademica, una lettura di saggio
antropologico anche cospicuo potrebbero essere
più illuminanti di quelle estive ore notturne trascorse in un
affascinato e del tutto involontario ascolto.
La notte era limpida e leggera, il cielo stellato, l’aria
profumata. Io credo che il piccolo
racconto potrebbe anche, nella sostanza, essere ambientato cento, mille, diecimila anni fa.
Ci sono delle situazioni particolari che tengono ancora
intensamente dentro il passato, il presente e il futuro che stanno partorendo.