Dal libro di Sergio De Nicola:

Maratea … parliamone ancora

Tra cronaca e storia di un paese caratteristico

Vecchia e nuova Maratea

prima che arrivi l’industria

 

Si perde con l’ottocento un mondo ordinato, un mondo quasi senza fretta; l’umanità si affaccia con il novecento verso realtà ideologiche, scientifiche e industriali sconvolgenti in veloce e dinamico divenire.

La società di Maratea non può che accogliere, nella sua globalità, con indifferenza e con sensibile distacco questa nuova alba di stimoli ideali anche perché sconvolta dai nuovi eventi, nel suo esile tessuto economico e sociale, che aveva dato a tale comunità un settecento e parte dell’ottocento praticamente dinamico, ricco di fermenti, per la presenza di quell’ampio strato intermedio, creatosi prevalentemente su basi economiche, e che aveva evitato il bipolarismo diversificandone così lo sviluppo da gran parte delle aree lucane.

Nel 1894, il sibilo del treno, attraversando il nostro territorio, squarcia un’atmosfera vergine di millenni e porta il segnale dei tempi nuovi.

La nostra comunità non può dare a tale segnale nuova originalità al suo sviluppo. Con quel treno, infatti, partono gran parte degli emigranti di Maratea; essi non fuggivano, come successe per la quasi globalità dei diseredati del sud, per i quali partire fu un atto di ribellione a quell’assetto proprietario terriero e del barone il signore di tutta la vita dal quale dipendeva anche l’onore del povero.

Da Maratea si partiva perché crollava, col mutare delle condizioni socio-economiche e politiche della nazione e del circondario, quel sistema economico che aveva reso dinamica la nostra collettività nei secoli precedenti, fatta di piccoli commerci, di attività artigianali e di quella piccola attività ortofrutticola favorita dalla frantumazione del territorio; tutta attività questa, gestita da una moltitudine di microimprese a carattere familiare i cui membri compivano in modo autonomo tutte le fasi del ciclo economico. Né alternativa di ripresa economica era facile a realizzarsi, considerando la particolare collocazione del nostro territorio estremamente decentrato dalle grandi aree urbane del Sud.

In molti dunque partirono, ognuno con la speranza di ritornare, ognuno facendo sentire la sua presenza con quelle periodiche rimesse che permisero un miglioramento delle condizioni di vita delle loro famiglie e ai figli di studiare, cominciando a creare, così, una tendenza a quella massificazione dei costumi intorno a quei modelli di vita rappresentati tradizionalmente dalle classi intermedie. Ne è testimonianza il sorgere in numerose contrade di scuole primarie, il rifiorire dell’educandato femminile De Pino con gli insegnamenti elementari, complementare e giardino d’infanzia e l’apertura del convitto Lucano, nel quale si possono compiere anche studi ad indirizzo tecnico e classico. Tale organizzazione scolastica, nel censimento del 1951, farà risultare gli analfabeti del comune intorno al 16,4% contro una media regionale del 29,2%.

L’istruzione era infatti vista come l’unico mezzo per accedere ad un impiego statale ed imboccare quindi una vita di decoro e di prestigio. Intorno a tale fenomeno si ebbe anche una pennellata di mondanità rappresentata dal sorgere nel 1924 del circolo giovanile Pro Patria punto di incontro e fucina di iniziative della gioventù maschile del paese. In contemporanea quasi, compare la prima macchina da noleggio, una scuola per ricamatrici, la prima sala da biliardo e una banda musicale.

Per i meno fortunati, la vita non è agevole. La durezza di un lavoro pressante e ingrato sul proprio pezzetto di terra o presso terzi genera fatalismo e rassegnazione. Costoro completano un ecosistema sociale; il loro consenso a tale struttura della società è in parte generato dal bisogno e in parte voluto da chi, appena più fortunato, vede nel mantenimento di questa disuguaglianza la sopravvivenza di qualche privilegio.

Proprio il modo di vita delle classi più agiate viene visto, dunque, come meta dalla gran parte della popolazione; meta comunque da raggiungere secondo un canone di perbenismo qualunquistico, per nulla intaccato dalle nuove idee di lotta che dilagano per le contrade di gran parte della nazione.

Chi arriva con idee illuministico-libertarie trova l’isolamento in questa società dove le idee per nulla circolano e dove il tempo viene scandito dal susseguirsi esclusivo di novene e processioni. Ed è proprio la forte presenza di un certo clero, considerato che Maratea sin da tempi remoti fu centro rinomato di culto, che crea una cultura omogenea e refrattaria al nuovo; pronta a rinchiudersi come un riccio e ad etichettare come menti balzane i suoi stessi figli quando sono portatori del nuovo.

Nella rivista pubblicata nel 1932 in occasione del XII° centenario della traslazione delle reliquie di San Biagio V. e M. lo sviluppo scientifico non pervaso da sentimento religioso viene testualmente così definito: la scienza è un bisogno della mente e parla all’intelletto: essa, codice della materia, avvelena il cuore, rode l’anima e suggerisce i paradossi dello scetticismo e del nullismo arido e disperante.

Mentre ciò viene scritto, la storia d’Italia ha ormai archiviato quelle leghe contadine, il garofano rosso all’occhiello dei socialisti, quel fervore ideale e scientifico esploso altrove e da noi nemmeno avvertito.

Con le due arciconfraternite, dell’Addolorata e dell’Immacolata poi, rappresentanti la prima i meno abbienti, la seconda i nobili e i possidenti, il clero, dagli inizi del secolo, riesce a gestire in maniera salda la politica paesana o comunque a svuotarne l’incisività, anche quando questa assume carattere di particolare passione con la campagna elettorale che vede in lizza i movimenti denominati della sciammerica e della giacca (conservatori i primi, liberali i secondi).

Il novecento rappresenta, dunque, un periodo di grave crisi ideale della nostra collettività che si accompagna allo scadere di un quadro economico che si confonde ormai con quello di tanti paesi meridionali.

L’era fascista, con la sua retorica e con i suoi riti, contribuisce ad appiattire ulteriormente questa collettività, che accoglierà la liberazione solo con il gesto festante di pochissimi giovani, che danno fuoco a qualche immagine del Duce.

Da questo quadro socio-economico si evince come questa collettività sia stata pressoché impossibilitata a far germogliare quei fermenti atti a creare un saldo e dinamico dibattito ideologico e politico. Ancora le elezioni per la camera dei deputati, svoltesi nel 1953, evidenziano la presenza compatta di un fronte moderato conservatore: su 2.459 votanti 2.198 voti furono espressi a favore della D.C. e dei partiti di destra (D.C.: 1.605, PLI: 85, PNM: 360, MSI: 148), molto scarsi, come si può notare, furono i voti espressi a favore dei partiti laici e di sinistra andando dal PRI al PCI.

Nonostante ciò, tale comunità, come per i secoli precedenti, ha continuato a manifestare il suo tradizionale senso di civismo, atto a mantenere e a creare strutture necessarie alla vita collettiva.

I cittadini tutti avevano risposto nel 1939 con entusiasmo all’appello del commissario prefettizio dell’epoca, comm. Biagio Vitolo, per la costruzione di una strada carrabile atta a collegare il centro del comune con la Basilica di S.Biagio posta sull’omonimo monte, offrendo denaro e giornate lavorative. Tale opera, nell’intenzione del comm. Vitolo, doveva rappresentare il primo passo per l’incremento di un movimento turistico religioso verso Maratea.

All’interessamento sempre del comm. Vitolo, ed al contributo dei cittadini, sia residenti che emigrati, si deve la realizzazione degli unici spazi realizzati fino ad oggi nel centro storico, atti ad essere punto di ritrovo di cittadini e di turisti (Piazza Impero, ora Piazza Immacolata, Piazza Buraglia e Villa Comunale Cardinale Gennari).

All’inizio del secolo, Antonio Schettino, con l’obolo dei cittadini, ripristina il vecchio convento dei Paolotti, sito in via S. Francesco, quivi prende nuova vita l’ospedale fon­dato nel 1734 da G. De Lieto, al quale si accoppia uno ospizio di mendicità per i vecchi abbandonati di ambo i sessi.

A tale istituzione, i cittadini di Maratea sono rimasti sempre legati, tanto da rispondere massicciamente all’invito dell’allora presidente prof. Biagio Iannini, il quale nel 1932 con una circolare invita gli stessi ad un sacrificio economico per fornire l’ospedale di un autoclave e per lavori di ristrutturazione di impellente necessità.

Durante l’ultimo conflitto mondiale, molti marateoti si adoperavano per fornire alimenti, biancheria e tutto ciò che potesse alleviare le sofferenze dei malati.

Suggestivo è il resoconto, che nelle sue memorie fa il podestà dell’epoca Biagio Vitolo, il quale racconta delle sue lunghe attese sui gradoni della Prefettura di Potenza per convincere il Prefetto ad elargire più quantità di farina onde soddisfare l’esigenze delle varie istituzioni cittadine.

Per iniziativa, poi, di Antonio Cernicchiaro, presidente dell’ospedale alla fine degli anni quaranta, e con l’obolo dei cittadini di Maratea residenti in Bogotà (Colombia), l’ospedale si arricchisce di un moderno letto operatorio con lampada e di un gabinetto di analisi.

Nello stesso tempo, sempre per opera dello stesso presidente si garantisce in ospedale, per la prima volta, la presenza in pianta stabile di un chirurgo nella persona del valente prof. Francesco Bellelli.

Nel 1921, per iniziativa di Antonio Brando fu Gaetano, la corrente elettrica giunge nelle strade e nelle case di Maratea e Trecchina, mentre intorno agli anni venti appare la Banca Popolare Cooperativa di Maratea.

Tra le altre attività economiche bisogna ricordare la presenza di tre frantoi, mulini, della poco remunerativa industria del crine vegetale e di una piccola fabbrica di mattoni decorati per pavimenti, di proprietà di Nicola Di Filippo (fu Luigi).

Intorno agli anni cinquanta, infine, Antonio Cernicchiaro fonda una catena di negozi di elettrodomestici: La Casa Lucana la quale presente largamente nel Lagonegrese e nelle province viciniori, ha il merito di diffondere a livello di massa quanto la tecnologia dell’epoca offre. Questa è la Maratea della pri­ma metà del novecento, con le sue grandi ombre, ma anche con il suo profondo senso della collettività e con la sua volontà istintiva di non voler soccombere.

In questa collettività, nel 1953, tra un rifiorire di speranze, cala l’industria del nord ... ma non sarà sempre primavera.

 

 

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