21 maggio 1676 - L'assedio dei briganti a Maratea
di Luca Luongo 21/05/2015 - 14:17
Oggi 21 maggio cade il 339° anniversario di uno dei meno conosciuti episodi di storia marateota: l’assedio dei briganti.
Il problema della data.
In questo giorno del 1676 un’orda di centosessanta banditi assediò le strade e i vicoli di Maratea in un’efferata battaglia urbana durata diverse ore. Il ricordo del traumatico evento perdurò per molti decenni nella memoria collettiva dei marateoti, ma poi, per essersi perdute le – semmai esistite – memorie manoscritte dell’episodio, se ne perse la traccia. Tantoché, le poche opere che lo ricordano, neanche concordano sulla data precisa. Per Giambattista Pacichelli (1634-1695), che di Maratea parla nel suo Il Regno di Napoli in prospettiva, edito postumo nel 1703, l’assedio sarebbe avvenuto il 21 maggio 1647; per Biagio Tarantini (1864-1928) e Domenico Damiano (1891-1969) il 21 maggio 1676; nel testo della edizione del manoscritto di Carmine Iannini (1774-1835) il 21 maggio 1626.
In ogni caso, possiamo concordare, senza ragionevole dubbio, che l’episodio avvenne realmente nel 1676. La memoria pervenutaci grazie al Iannini ci dice che quel 21 maggio cadde di giovedì, e solo nel 1676 ciò avvenne. In più, la data del 21 maggio 1676 per l’assedio banditesco di Maratea è quella che si ritrova anche nelle cronache del Regno di Napoli. L’apparente contraddizione nel testo di Iannini può spiegarsi con un errore nella trascrizione del testo originale nel volume stampato: nella calligrafia di Iannini – che ho potuto osservare con i miei occhi nell’archivio parrocchiale – il segno del 2 è molto simile a quello del 7!
Cronaca di una battaglia brigantesca.
Non sappiamo dove il curato Iannini abbia tratto la dettagliata cronaca che nel suo manoscritto Di S. Biase e di Maratea, scritto tra il 1829 e il 1835 ma reso pubblico solo nel
Tutto iniziò prima dello spuntar del sole. «Allo spuntar dell’alba del testé segnata dì vent’uno Maggio, si ritrovò Maratea inferiore, sotto il tirannico dispotismo di centosessanta Banditi, i quali guidati da Gente prattica del paese, ch’erano per
Le case principalmente prese di mira furono le seguenti. Quella cioè del fù Ill.mo signor D. Giovanni Battista Gennari, in strada Arco de’ Cappuccini: del Rev. Cappellano della Chiesa soccarsale della Santissima Annunciata, per nome anche D. Giovanni Battista Gennari, ivi vicina, oggi però diruta: di D. Diego Mari, in strada vicino
Avevano i Banditi, deposto il loro Bagaglio, nel piano avant’il Convento de’ Minori Osservati, oggi abitato dalle Salesiane, per essere più spediti alle straggi, ed alle rapine: e la prima casa, che stimarono di assalire, fù quella del Signor Ginnari, all’Arco de’ Cappuccini, al di cui Portone, che non potettero mai guadagnare, attaccarono il fuoco. Oltre alla fortezza del Portone, vi avrebbero sperimentata pure una viva resistenza, stante i Signori Gennari, più Fratelli erano, coraggiosi, e muniti di armi, ma come poterlo fare? Avendo guadagnata la casa dirimpetto di Ascanio Zeno, oggi della vedova Signora Benedetta Farachi alla stessa tiravano delle fucilate continuamente alle finestre della Casa assalita. Furono di avviso dunque di difendersi al meglio che potettero: e foderando le Finestre di pericolo, di matarazzi, per non restare uccisi dentro la propria Casa: furono tutti attenti, ed intenti, per un camino, che corrispondeva sopra il portone, a versare dell’acqua, per estinguere il fuoco ed essendo rimasta essiccata una gran Cisterna, si videro nella necessità di versarvi più botti di vino. Con questo metodo il portone non fù mai guadagnato; e ad essi Gennari, oltre all’acqua, e vino consumato, niun altro danno avvenne.
Per quanto le fucilate tirate dalla Casa di Ascanio Zeno, contro
In questo mentre il Rev. Cappellano Gennari, restò persuaso, di voler essere anch’Egli di breve aggresso, ed assassinato. Determinò però quantunque vecchio morir non da codardo. Si fece da’ suoi portare lo Schioppo, e la munizione; e nel momento che si accingeva a grandi imprese, una palla entrata per la finestra di sua Casa, andò a battere alla sua gola; ed invocato all’istante di S. Biase, portento, una superficiale decorticazione. Un tale avvenimento gli fece mutar pensiero, e risolvere di vincergli con
Dirimpetto alla Casa del Rev. Cappellano Gennari, abitava allora Francesco de Fortuna, ed oggi per esserne proprietario l’Ill.mo Signor D. Leopoldo Fasanari. Il suddetto Fortuna, dopo avere buttato il suo oro ed argento nel luogo immondo si nascose, e nascosto non cessò di raccomandarsi al Santo Protettore. Fù esaudito stante nell’entrare in sua Casa i Banditi ne restarono spaventati dai clamori, che si sentivano per
Prima dello sparo del Cannone, e contemporaneamente, che una turma nelle strade Arco de’ Cappuccini, e Penninata, stava intenta ad assassinare, quanto gli riusciva, un’altra guadagnato aveva il Portone di D. Diego Mari, e lo aveva trafitto di pugnalate, e non contenta di averlo spogliato di tutto; anzi lo più protervo di essi gonfio di gloria, senza mai stancarsi, per animare i Compagni, non cessava di gridare, e gridando di ripetere Oliva Oliva: parola di segno, che il bottino si andava accrescendo: ma immediatamente poi mutò di aspetto l’affare, perché Giovanni Andrea Parrazino, che si ritrovava dalla sera precedente nella Casa sottoposta dell’Ill.mo Signor de Santis, per andare in sua Compagnia, a divertirsi nella Campagna, essendo entrambi bravi cacciatori, dalla stessa gli tirò una fucilata, per la quale cadde morto sul posto, cioè fuori la loggia della Casa del Mari.
Direpente i compagni si diedero alla fuga, ed arrivati nella piccola piazza denominata Palazzo, il Parrazino, da dentro
Tre ore di tempo, e non più duro tutto il conflitto. Immediatamente dopo la morte de’ due Banditi: lo sparo del Cannone; e l’insurrezione della popolazione, si diedero alla fuga, precipitandosi da tutte le parti. Altri presero la strada di Zuccalia, che conduce al Convento di S. Francesco di Paola: altri verso quello, ora abitato dalle Monache Salesiane: altri finalmente, per la strada detta Garàzza, che conduce al Convento de’ PP. Cappuccini. Il di loro scopo era potersi riunire nel luogo denominato Campo, ove vi è
Si continuarono a sentire i clamori in Maratea inferiore. Le Femmine, che consideravano il pericolo de’ loro congionti, non sapevano dire altro, se non S. Biase: Corpo Santo: Padrone nostro: combatti per noi. Si vedevano pure da Maratea superiore, altri fuggire: altri inseguire. Si videro i fuggitivi ringolati nel punto detto Campo, ed in mezzo di Essi si diresse il Cannone, che si sparò per la seconda volta; ed oh portento! La palla del Cannone, diede in un grosso sasso, e lo stesso nel frangersi, ne infranse degli altri; e si venne a formare come una mitraglia, di tanta violenza, che fece de’ Banditi un gran macello; de’ quali i superstiti sempreppiù fuggendo, siccome camin facevano, così si andavano spogliando di ogni senso di Umanità. Sulle prime scannarono que’ loro compagni, che non si fidavano di proseguire la marcia, perché feriti. Indi da tale barbarie, accaniti tra di loro, ne’ luoghi più deserti, e cavernosi si trucidarono vicendevolmente. Di tutt’i centosessanta ch’erano di numero, appena quattro di essi, restarono semivivi, che poi andarono a morire, cioè in contrada
Dopo ciò ritiratisi i Marateoti nella Città inferiore, i Capi del Popolo fecero suonare
Si stava quindi da tutti, come tra le Spine, per la mancanza de’ tre mentovati Individui, de’ quali non si aveva contezza veruna, e solo si sapeva ch’erano stati rapiti da’ Banditi, quando fuggirono. Dopo tre giorni però ritornarono, senza offesa veruna; ed il Sacerdote Ferraro riferì, che in tanto non erano stati uccisi, in quantocché que’ Scellerati, atterriti ne venivano, come dicevano, da un Vecchio venerando che vedevano ogni qual volta, il pensiero ne lo suggeriva: che lo stesso Vecchio, veduto avevano, con un bastone tra le mani, col quale gli perseguitava , e perciò si erano dati precipitosamente alla fuga: che nella notte immediatamente al Conflitto, avevano veduta anch’essi la montagna di S. Biase circondata di fuoco acceso, ed al risplendere delle fiamme un grosso Esercito. Finalmente assicurò, che di tutt’i centosessanta Banditi, piombati nella Padria, niuno più si ritrovava nel numero de’ viventi.»
I quadri dell’assedio.
Il soccorso divino, con l’apparizione del santo, non poté non portare ad una raffigurazione dell’episodio nelle chiese come evento legato al prodigio del miracolo. Sempre Iannini ci informa che «a futura memoria, si fece dipingere in due quadri, de’ quali si vedevano i Banditi, perseguitati da’ Marateoti: S. Biase che gli metteva in fuga; e
La processione con il cero.
Dopo l’assedio venne stabilito di fare, ogni anno, una processione votiva con un cero nell’anniversario dell’episodio. Però, man mano che
Era però questa tradizione un seme disposto a dare frutto. Come ho scritto in un precedente intervento, è proprio da qui che nascerà l’idea di rinnovare i festeggiamenti blasiani di maggio per far divenire la festa così come la conosciamo ora. Si dovrà però aspettare il 1695, quando gli uomini raccolti intorno al sindaco di Maratea inferiore, Federico Riccio, e al notaio Giovanni Pietro Lombardi creeranno una nuova tradizione destinata a sfidare i secoli.