Il giorno di Carlo da Celle

di Luca Luongo 12/08/2015 – 18:04

 

Se il Sole, dispettoso, si nasconde dietro le nuvole e il vento continua a pungerci la schiena, impedendoci di godere del nostro mare, prendiamoci un minuto per ricordarci di un triste evento di casa nostra: la morte di Carlo da Celle, martire della libertà.

Quando si va verso la bella chiesa di Sant’Antonio ai Cappuccini, si nota facilmente una lapide che recita: Per la libertà / di queste popolazioni / padre Carlo da Celle / Cappuccino ventinovenne / in questo luogo veniva sacrificato / dalla tirannide borbonica / il 12 agosto 1828 / nel 150° anniversario / l’Amministrazione comunale pose.

Ma chi era fra’ Carlo e cosa aveva fatto da meritare quella fine?

Nel 1828, echi tardi di passioni mai sopite dalla precedente rivolta del 1820 avevano rinsanguato gli animi rivoluzionari nel Cilento. Un moto rivoluzionario, nel giugno, si levò per chiedere al re Francesco I delle Due Sicilie la Costituzione, il Parlamento e maggiori libertà personali nella vita pubblica. Eminente personalità in questo movimento c’era il canonico Antonio Maria De Luca (1764-1828), che nel 1820-21 era stato eletto deputato dalla sua Celle Bulgheria durante il cosiddetto “nonimestre costituzionale” del Regno delle Due Sicilie.

Il De Luca aveva un nipote, Carlo Guida, nato nel 1799 anche lui a Celle Bulgheria. Avuta anche lui in giovane età la vocazione di servire il Signore, prese l’abito monastico dei Cappuccini nel convento di Maratea. Qui, come di consueto, perse il suo cognome e fu noto come Carlo da Celle.

Quando scoppiò la rivolta, Carlo volle seguire e aiutare lo zio. Racconta lo storico Matteo Mazziotti (1851-1928) che prima della marcia su Palinuro – dove fu proclamato un governo insurrezionale – Carlo, raggiunto lo zio a Camerota, «si pose a capo degli insorti ed innalzando il grido: «viva la libertà, viva la costituzione francese!» penetrò nella borgata, ove salito su di un tavolino si mise ad arringare il popolo.»

Ma la rivolta del Cilento ebbe breve vita. Re Francesco, non disposto a concedere la libertà che i suoi sudditi chiedevano, diede ordine al generale Del Carretto (1777-1861) di riportare “l’ordine” nel Cilento a qualunque costo. Senza scrupoli, e con i poteri di alter ego del re, il Del Carretto fece terra bruciata. Arrivato ai paesi cuore della rivolta, nel luglio dello stesso 1828, diede ordine di radere al suolo Bosco, oggi frazione di San Giovanni a Piro.

«Prima in Bosco, - ricorderà Luigi Settembrini (1813-1876) -  poi in altri paeselli vicini fu gridato “Costituzione” [...] Tosto re Francesco mandò a furia con ordini severissimi il brigadiere Del Carretto a capo di alcune centinaia di gendarmi. Costui distrusse a colpi di cannone il villaggio di Bosco già deserto d’abitanti; ed incarcerati quanti gli capitavano rei o sospetti, li fe’ giudicare da una commissione militare da lui stesso nominata, la quale ne condannò a morte ventidue, e una sessantina a la galera: ottanta ne furono carcerati in Napoli come complici, e sette condannati nel capo. Per questo servigio il Del Carretto ebbe titolo di marchese, grado di maresciallo, e fu tenuto in petto per cose maggiori.»

Il De Luca, portato a Salerno, fu scomunicato e poi fucilato. Gli altri aderenti alla rivolta ebbero sorte anche peggiore: in alcuni casi il Del Carretto ordinava che i cadaveri dei fucilati fossero decapitati e le teste appese, in gabbie di ferro, all’ingresso dei paesi per terrorizzare gli abitanti, abitudine importata nel Mezzogiorno d’Italia dai francesi nel 1806 e purtroppo proseguita, bisogna dire, anche dopo l’Unità d’Italia durante il grande brigantaggio.

Il 1° agosto 1828 la commissioni militare di Del Carretto condannava a morte anche «padre Carlo da Celle, guardiano del convento dei cappuccini in Maratea, reo di cospirazione settaria per distruggere e cambiare il governo, recatosi a tal fine in varî comuni, adoperandosi di provvedere di armi e di altri mezzi i faziosi masnadieri».

 I dettagli dell’esecuzione, da me ricordati in altra circostanza, sono raccontanti ancora dal Mazziotti: «Il padre Carlo da Celle, arrestato nel convento di Lagonegro al quale era stato trasferito da quello di Maratea, di cui era guardiano, non raggiungeva ancora i 29 anni. […] Il supplizio dello sventurato cappuccino era stabilito in Maratea: ma bisognava prima dissacrarlo come si era fatto per il canonico De Luca. Il maresciallo, per non incontrare difficoltà, scrisse amorevolmente e prima della condanna, come egli stesso narra, al vescovo di Policastro per pregarlo di tale ufficio e gli mandò la lettera per mezzo del capitano Carrabba in Lauria, ove il prelato si trovava. Questi rispose il dì 8 agosto al capitano di essere pronto a compiere la funzione. Difatti, recatosi appositamente a Maratea, dissacrava, nel locale della congregazione dell’Immacolata Concezione, il cappuccino con le formalità determinate dal rito. Indi un plotone di soldati, nello stesso giorno 12 agosto, fucilava a le spalle, innanzi la porta del convento di Maratea, il padre Carlo da Celle, assistito, per i conforti religiosi, da i sacerdoti F. A. Mordente e Daniele Farachi. Il cadavere ebbe sepoltura nella chiesa dello stesso convento.»

Poiché a Maratea tutti gendarmi presenti rifiutarono di prendere parte a questa esecuzione, i soldati dovettero arrivare da Policastro. Un documento dell’archivio comunale dice che il Comune di Maratea fu obbligato a farsi carico della spesa della fucilazione, «rimontante a docati quattro cioè, pel trasporto delle Truppe sudette [sic] da Policastro in questo medesimo comune su de’ Paranzelli, alli de’ Padroni Pietro Cangiano, e Gaetano De Luca, e pel loro ritorno in quello additato lido, e li rimanenti docati 22.23 per ranzioni [sic] somministrate alle stesse, e foraggi ancora

Centocinquant’anni dopo, invece, l’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Fernanrdo Sisinni (1945-1986) apponeva la lapide commemorativa che ancora oggi ci ricorda quell’evento e questo ragazzo, uno dei tanti martiri che hanno dato la vita per costruire il nostro presente. E noi, rispettosi, non dimentichiamo.

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