La peste del 1656 a Maratea.

di Luca Luongo

 

Ho titubato per settimane per questo articolo. Era il caso di pubblicarlo durante la pi grande pandemia degli ultimi cento anni?

Ora che i casi di Malattia da Coronavirus in Italia sembrano molto pi sotto controllo  arrivato il momento di fare un confronto - sicuramente molto relativo - con la pi grande epidemia che abbia mai colpito Maratea in epoca moderna. E nessun giorno  pi adatto di oggi, in cui cade il 364esimo anniversario dellĠinizio del contagio.

 

18 giugno 1656.

Con poche e fredde parole, il parroco di S. Maria Maggiore, don Giacomo Santoro De Vescis (1609-1677), annot˜ lĠinizio del contagio a Maratea nel registro dei morti dellĠarchivio parrocchiale: Çincominci˜ la peste in la Cittˆ di Maratea a d“ 18 di giugno 1656È.

Pare che la peste arriv˜ a Maratea da Napoli, trasportata da uno dei tanti marinai marateoti che faceva la spola tra il paese e la capitale dellĠantico regno. Tra le primissime vittime, infatti, si legge il nome di Giovan Domenico DĠAnatra, di cui si dice Çfu defunto per la peste in questo nostro territorio di Maratea tre giorni dopo gionto [sic] dalla Cittˆ di NapoliÈ.

 

La quarantena al Porto.

Immediatamente entr˜ in attivitˆ una quarantena. Contrariamente a quanto abbiamo vissuto nella pandemia di questĠanno, la quarantena, nel suo senso autentico, non  soltanto un periodo, ma un luogo di isolamento.

La prima quarantena venne allestita al Porto, molto probabilmente - sebbene mi manchino le certezze documentarie - nella Torre di Filocaio, costruita un secolo prima.

Giˆ a fine giugno il parroco registr˜ diversi morti proprio Çnella quarantena al PortoÈ.

 

Gli appestati sullĠisola di Santo Janni.

Ma lo spazio al Porto era limitato. I casi di peste proliferavano e i nostri antenati dovettero escogitare una soluzione drastica, per quanto senzĠaltro efficace, per confinare gli appestati. Si decise quindi di spedirli sullĠisola di Santo Janni.

Nel registro dei morti per la peste del 1656 a Maratea si trovano i nomi di nove persone traghettate a morire sullĠisola: Biase Vita e Gian Domenico Armeno (27 giugno), Francesco Zerbino, Franco Ferraro e Biase Catalano (29 giugno), Giuseppe Lo Coro (2 luglio), Arcangelo Mazzaro (4 luglio), Giovan Antonio Canasino (6 luglio) e lĠanonima moglie di Giovambattista Gautere (7 luglio).

Gli scheletri di questi poveri disgraziati vennero rinvenuti negli anni Ô90 del secolo scorso, durante gli scavi archeologici effettuati sullĠisola e il restauro della cappellina dedicata a S. Giovanni a cui lĠisola stessa deve il suo nome. Gli archeologi non seppero spiegarsi il perchŽ di sepolture del XVII secolo in loco ed ipotizzarono, come per alcune tombe pi antiche, un uso rituale o religioso. Noi, che sappiamo la veritˆ, rabbrividiamo.

 

Fine della quarantena, inizio del panico.

AllĠ11 agosto 1656 risale lĠultima annotazione di una morte in una quarantena. Dopo quella data lĠindicazione scompare.

é possibile che, a quasi due mesi dallĠinizio del contagio, i nostri antenati non avessero pi fiducia in quella misura di prevenzione. Anzi, lĠaumento vertiginoso dei morti probabilmente non dava dubbi sulla sua inutilitˆ.

A differenza della Malattia da Coronavirus, la peste bubbonica non si trasmette da uomo a uomo. Il bacillo ha bisogno di un tramite, spesso i topi o le loro pulci, per passare da un ammalato a una persona sana, che si ammala a sua volta. Nel mondo antico non esisteva una separazione tra lo spazio degli uomini e quello degli animali, di conseguenza il contagio aveva gioco facile.

I nostri antenati, per˜, non capivano questo meccanismo. Ritenevano che la malattia si diffondesse, in qualche fantasioso modo, tramite lĠaria (tanto che ancora oggi lĠitaliano conserva lĠespressione aria appestata).

A partire da metˆ agosto il panico dovette impossessarsi dei marateoti. Trovo registrate le morti in pressochŽ tutti i luoghi del territorio: Cappuccini, S. Nicola, S. Leonardo, Ondavo, Vicinali, Trecchinari, S. Basile, Cersuta, Acquafredda, S. Venere, Fiumicello, Prato (di Massa), Marina, ecc.

Considerando che fino alla metˆ del XVIII secolo la popolazione di Maratea era concentrata nel Borgo (ora centro storico) e al Castello, queste indicazioni testimoniano un vero e proprio esodo. I marateoti, terrorizzati dal proliferare della malattia nei vicoli e nelle case, si diedero alla macchia, riparandosi nelle strutture rurali (casette nei campi, stiazzi, magazzini) se non addirittura allĠaddiaccio.

Per provare a contrastare la peste si prov˜ a distruggere i cadaveri immediatamente dopo il decesso. A fianco la registrazione di alcuni trapassi, il parroco annota che il morto Çse bruggi˜ [sic] dentro sua casaÈ.

Vita in un lockdown seicentesco.

Ovviamente, vivere una pestilenza da popolano era ben diverso che farlo da nobili e ricchi.

I patrizi dei nostri paesi avevano casette rurali, quando non vere e proprie villette o casamatte nei loro possedimenti fuori dagli abitati. L“ si rifugiarono aspettando la fine dellĠemergenza.

Un diario molto dettagliato di quello che fu lĠesperienza di questo lockdown ante litteram ci viene dal diario di Giorgio Toscano, un nobile di Oriolo (CS) che frequent˜ Maratea (per ragioni di viaggio) negli anni intorno alla pestilenza. Va detto, comunque, che Toscano visse la peste nel paese natio.

ÇOsservato da me il principio di questo non meno crudele che commemorato successo, e considerando in parte ci˜ che potea [sic] succedere, mi racchiusi con tutta la famiglia entro la propria casa e feci fabricare [sic] a secco i due vichi peĠ quali entrar si potea, mentre per altro avendo dentro tutte le commoditˆ [sic] necessarie e di centimolo e di cisterna abbondante dĠacqua ma scorgendo che tuttavia il morbo andava imperversando e dubitando, che a lungo andare si sarebbero trovati morti i poveri cittadini per le pubbliche strade come pure ne venivano trovati morti da altre parti lĠavviso, stimai che quel morbo che era di contagio sarebbe divenuto dĠinfezione dĠaere, e cos“ anco e nella propria casa, con tutto che non avessi dato commercio ad anima vivente sarei stato sicuro; onde per preservarmi da periglio cotanto imminente, feci deliberazione e presi tra me consiglio, che ritrovai dopo giusta la consulta, che ne presi daĠ sig.ri medici che per preservativo di questo morbo non vi era miglior ricetta di quella, che contiene queste tre parole: ÇCITO, LONGE ET TARDEÈ che vogliono significare Çfuggir presto, andar lontano e tornar tardoÈ, dopo la cessazione del morbo.

Attesi intanto con ogni celeritˆ a provvedermi delle cose al vitto necessario e soprattutto di una buona provista [sic] di farina, ed andammo a ricoverarci nella nostra possession del Careto, situati tra le montagne in distanza da queste Terra pi di due miglia e mezzo, e vennero con noi i nostri massari e custodi di animali con tutte le loro famiglie, [É] in modo che tutti assieme con la servit e loro famiglie potevano ascendere al numero di trenta persone tutte accomodate di abitazioni e di viveri, perchŽ vi era la provvista della farina e latticinj [sic] portati dalla casa, della carne non mancava in campagna deĠ nostri animali, vi era un giardino abbondante di fogliame e precise di cavoli; e perchŽ la mossa fu verso lĠultimo ottobre trovavansi le vigne ben cariche di una e di frutta, e furono ivi conservati, ed imbottato il musto [sic] in modo che non solo non si sentiva disagio alcuno, ma stavamo con ogni gusto ed allegrezza, se non venivano amareggiati delle continue notizie, che ci recavano li foresi delle campagne della strage crudelissima che il maledetto morbo faceva in Oriolo e da un altro sinistro evento a noi accaduto e fu: che non contente le donne dellĠabbondante provvista che ivi si trovava, inconsideratamente e senza nostra saputa mandarono nella Terra una nostra creata a pigliare le galline rimaste in casa, con avvertimento per˜ che non si accostasse con anima vivente; [É] ma non pass˜ la notte che non fusse [sic] assalita da febbre ed indi a poco ad uscirgli un bubbone nelle parti pubende [sic] e senza pubblicar cosa alcuna la mattina e il giorno seguente prattic˜ [sic] indifferentemente con Laura e Giulia mie sorelle, a segno tale che lĠaltra notte susseguente fu detta Giulia assalita dal medesimo morbo, [É] subito ci persuasimo [sic] di ci˜ che era, e confessataci da essa la veritˆ presimo [sic] risoluzione di rimandare a casa non solo la detta Giulia e create, ma anche Laura, ed Isabella Persiana nostra nipote [É].È

Neppure lĠisolamento, quindi, garantiva immunitˆ totale: il morbo riusciva a colpire ogni fianco lasciato imprudentemente sguarnito.

 

La fine della peste.

I contagi calarono con lĠavanzare della stagione fredda, forse perchŽ la maggiore frequenza di pioggia costringeva topi e pulci a ritirarsi.

Le ultime due vittime di peste a Maratea, le signore Paola Palria e lĠanonima figlia di Relduna Di Vita, morirono il 9 gennaio 1657. La peste era durata poco meno di sei mesi.

Maratea Borgo cont˜ 400 morti, al Castello (di cui purtroppo non abbiamo i registri parrocchiali per questĠepoca) so da fonti dellĠarchivio di Stato di Napoli che i morti furono 90.

Alla fine dei conti, Maratea ebbe in totale 490 morti, una cifra molto bassa. In tutta la Basilicata i morti furono 21.289. Tra i paesi vicini Lauria cont˜ 2.100 vittime, Lagonegro 1.943, Rivello 1.500 e Trecchina 638.

A quanto pare la fuga dei marateoti nella campagna aveva arginato i contagi: forse, sparpagliandosi per il territorio, si era venuta a limitare la possibilitˆ di trasmettere il morbo (i topi, come tutti i roditori, difficilmente percorrono lunghe distanze).

Si potrebbe dire che, presi dal panico, i nostri antenati salvarono molte vite attuando una sorta di distanziamento sociale portato sino allĠiperbole. Ma chissˆ se si resero conto del perchŽ la cosa aveva funzionato...!

In ogni caso, la pestilenza fu un momento molto traumatico. Tale da sparire dalla memoria collettiva dopo pochi decenni. NellĠatto del 1695 che istituiva la moderna festa di S. Biagio di maggio, i firmatari, elogiando il patrocinio del santo, si chiedevano Çquale pestilenza ci ha mai colpiti?È. Per quanto il numero dei morti fu, effettivamente, limitato, la domanda dei figli o nipoti dei sopravvissuti alla peste del 1656 a Maratea testimonia un chiaro episodio di rimozione di un evento talmente spaventoso che si preferisce dimenticare.

Dimenticare, dĠaltra parte,  tra i superpoteri della mente umana: unĠoperazione dolorosa, ma talvolta necessaria.

 

 Luca Luongo

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