Tesori nascosti: archeologia a Maratea.

Inviato da Luca Luongo Giovedì 18/12/2015 – 16:28

 

A Maratea non c’è solo il mare.

Maratea ha ambiente, natura, arte, storia. E anche tanta archeologia. Se non te ne accorgi non è colpa tua: è che un reperto sottoterra è poco appariscente…!

L’archeologia di Maratea.

Il territorio di Maratea è abbastanza ricco da un punto di vista archeologico. Non a caso, la nostra Maratea condivide con la terra di Latronico il primato del territorio da più tempo popolato dall’uomo in Basilicata.

Le prime testimonianze di frequentazione umana risalgono al Paleolitico medio, epoca compresa tra i 120 e i 30 mila anni fa. Nel 1957 il paleontologo Vincenzo Fusco, della università Governativa di Milano, intraprese delle ricerche lungo la costiera tirrenica lucana. A lui si deve la scoperta di un insediamento neandertaliano nelle grotte presso la spiaggia di Fiumicello. Lo studioso rinvenne alcuni raschiatoi musteriani, ossia antichi utensili di pietra, rozzamente lavorati nella selce, conservatisi miracolosamente lungo i millenni grazie alla sedimentazione di materiale roccioso.

Pochi anni dopo, durante alcuni lavori di consolidamento dell’appendice di strada provinciale che scende al Porto, vennero ritrovati altri reperti simili, insieme ad alcune monete in bronzo. Nessuno, forse, allora immaginava che quelle erano soltanto le prime tracce del patrimonio archeologico conservato da Capo la Timpa, il tozzo promontorio che si alza sopra le case del nostro Porto.

Le capanne de la Timpa.

Circa trent’anni dopo, infatti, un rinvenimento casuale, da parte di un privato cittadino, portò alla scoperta di un importantissimo sito archeologico di epoca proto-storica, sparso su alcuni dei terrazzamenti del promontorio che guardano verso sud. Nel 1989 e nel 1990, la campagna di scavi condotta dai proff. Paola Bottini e Salvatore Bianco, ha portato alla luce il più antico insediamento stabile conosciuto sul territorio di Maratea: si trattava di un modesto villaggio di capanne, vissuto, a più riprese, tra il XVI-XV e l’inizio del II secolo a. C.

Alla fine del Neolitico, ultimo periodo della preistoria vera e propria, gli uomini che popolavano la Lucania costruivano piccoli insediamenti a capanne sulle alture, fortificandoli o proteggendoli naturalmente grazie ai dirupi. Posti in posizioni strategiche per il controllo del territorio circostante, mai troppo lontani dalle fonti d’acqua e dalle zone meglio coltivabili, così il villaggio di Capo la Timpa si configura come un caso conforme ad altri lungo la regione. La sua posizione, sul promontorio quasi al centro della nostra costa, permetteva un ottimo controllo sul mare e sulla grande valle alle sue spalle, così da porsi come naturale sbocco costiero alle popolazioni montane, che, passando dal passo della Colla, arrivavano al mare per scambiare i loro prodotti agricolo-pastorali con manufatti importati dai popoli mediterranei, in primo luogo i Micenei.

Oltre ai consueti reperti fittili – cioè i frammenti di vasi e ceramiche, laterizi, ecc. –, a impreziosire il sito fu la scoperta della base di una delle capanne, molto ben conservata, con tracce delle mura perimetrali e il pavimento, quasi integro nella sua stesura in cocciopesto.

La fattoria di Massa.

Dopo il IV secolo a. C., anche sul golfo di Policastro gruppi di Lucani iniziarono a sostituirsi alle popolazioni di Enotri. L’unica testimonianza diretta, finora, di presenza lucana sul territorio di Maratea, è la piccola masseria o fattoria ritrovata, casualmente, presso le case di Massa.

Abitato fino alla prima età imperiale romana, il piccolo insediamento aveva una fornace, di cui sono state ritrovate alcune produzioni in ceramica.

Le villae romane.

Con la conquista della Lucania da parte dei Romani, tutto il quadro insediativo del territorio regionale cambiò radicalmente. Le leggi annonarie romane, le aspre guerre contro Pirro prima e Annibale poi, spopolarono di molto l’antica Lucania. Moltissimi villaggi, e qualche città, scomparve.

Anche sul territorio di Maratea ci furono ripercussioni. Dopo il II secolo a. C. il villaggio di Capo la Timpa venne abbandonato per sempre. La popolazione sul territorio si ridistribuì in maniera sparsa, andando a concentrarsi presso le grandi ville che i patrizi romani facevano costruire lungo la costiera.

Una di queste ville è stata ritrovata, contemporaneamente agli scavi de la Timpa, presso la Secca di Castrocucco. Gli archeologi hanno rinvenuto la base della struttura, con quattro stanze e alcune vasche per l’allevamento ittico.

Malgrado il nome, infatti, queste ville non erano semplicemente luoghi di vacanza dei ricchi dell’antico Impero, ma veri e propri centri di produzione, tanto agricola che ittica, con allevamenti di pesce e produzione di salse.

Nelle vicinanze delle ville erano soliti sorgere dei vici, cioè piccoli villaggi di modeste casette destinati ad ospitare la popolazione che viveva a margine delle ville e che prestavano loro la manodopera più essenziale. Sul territorio di Maratea l’unico vicus conosciuto, di cui abbiamo una testimonianza indiretta, si trovava nei pressi dell’odierna Fiumicello. Nel 1836 lo studioso Andrea Lombardi ne vide i resti, tra cui quelli «di un tempietto di fabbrica reticolata, non che gli avanzi di alcuni privati edifici, e di un pavimento a mosaico». Tali reperti oggi non esistono più, pare perché distrutti nei lavori di scarico dei materiali di risulta del raddoppio del binario alla linea ferroviaria.

Tombe pagane a Castrocucco.

La zona di Castrocucco ha riservato anche altre scoperte. Nella zona dove sorge l’attuale villaggio (o frazione che dir si voglia), un rinvenimento casuale portò alla luce una necropoli pagana, utilizzata per la sepoltura dei morti durante il III e il II secolo a. C.

Le poche tombe scavate, hanno purtroppo restituito pochissimi reperti. A differenza della vicina Tortora, con la necropoli di San Brancato, quella di Castrocucco non ha vantato il rinvenimento di ricchi corredi funerari.

Le ancore e le vasche all’isola di Santo Janni.

L’altro grande centro di allevamento ittico si trovava in un luogo molto più suggestivo: l’isola di Santo Janni. Sul fianco meridionale dell’isolotto, gli archeologi hanno rinvenuto sette vasche quadrangolari, lavorate in cocciopesto e pietre di mare, destinate allo stoccaggio e all’allevamento del pesce.

Sull’isola venivano prodotte varie salse di pesce, tra cui il famoso garum. Per la sua posizione, l’isola era sia centro di produzione che di smercio. Nei fondali intorno ad essa, infatti, decine e decine di ceppi d’àncora ed anfore romane sono stati ripescati, in viarie campagne di ricerca, facendo così diventare lo specchio di mare intorno a Santo Janni il giacimento archeologico subacqueo di epoca romana esplorato più grande del Mediterraneo.

Una politica archeologica.

Maratea non è solo mare, quindi. O meglio, il nostro mare pare avere più tesori di quel che sembra. I tesori archeologici che qui abbiamo elencato – e gli altri che troveremmo con nuove campagne di ricerca – sono ulteriori ricchezze della nostra Maratea. Purtroppo però, faticano a entrare nel novero della nostra offerta turistica.

Il campo archeologico è problematico da sfruttare a fini turistici. Mentre risorse ambientali e artistiche sono relativamente facili da immettere nel ventaglio di una offerta turistica, l’archeologia ha più problemi. Eppure, averne dà una marcia in più: a differenza della balneazione, degli eventi, della convegnistica, l’offerta archeologica è perenne, non legata ad alcun periodo dell’anno.

L’archeologia che non si inserisce in un celebre filone culturale – come possono essere l’antica Roma, la Magna Grecia, il Medioevo, ecc. – rischia di rivelarsi un investimento sterile: onestamente, oggi chi farebbe ore di autostrada, mettiamo le quattro da Roma a Maratea, giusto per venire a vedere il frammento di un’anfora da garum ritrovata sull’isola di Santo Janni?

Soltanto quando la collezione di reperti è collegata a un elemento di «traino» del mercato turistico si trova la strada per essere agevolmente inseriti nell’offerta turistica. Per capirci meglio, uno di questi traini di cui parlo per la nostra Maratea è senz’altro il mare, e non mi pare un caso che oggi tra i reperti esposti al pubblico a Maratea dominino proprio quelli di archeologia subacquea.

Il mondo del turismo non è un mondo a camere stagne. Investire tempo, energie e risorse in un filone non esclude poter raccogliere frutti consistenti anche in altri. Anzi: sono proprio le politiche (parola che qui, come molte volte, va letta nel senso di organizzazione e gestione delle risorse) che fanno fare sistema alle potenzialità di un territorio quelle che danno i migliori risultati.

Che il pezzo forte dell’offerta di Maratea sia il mare – il cui appeal non finisce con la balneazione, ma questa è altra questione – è indubitabile. Ma è proprio questa consapevolezza che deve far mettere il pezzo forte nel mezzo di un piatto più sostanzioso. Non sarebbe affatto una forzatura, perché quanto di bello, di arte e di storico abbiamo lo dobbiamo alla ricchezza e alla cultura venute dal nostro mare.

Farlo può significare, con il tempo, arrivare ad avere persone che vogliano venire a vedere «i reperti della storia del mare di Maratea».

Non so a voi, ma a me suona proprio bello…

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