di Aldo Fiorenzano
Cilardu i Sarchiuni,
questo era il suo nome e soprannome, era un personaggio del Porto davvero
singolare, dotato di una dote particolare: un altissimo senso dell’ironia
e dell’ umorismo che lo rendevano di una simpatia unica.
Amava parlare con le
persone e soprattutto raccontare episodi della sua vita trascorsa tra
l’Italia e l’America del Sud. Ne aveva passati di tutti i colori,
soleva dire, ed in guerra - la seconda mondiale - aveva perso un occhio, in
Albania. Raccontava che mentre correva in cerca di riparo, con un occhio fuori
dall’orbita, passò vicino il suo comandante, anch’esso
ferito, e carponi per terra. Dopo il primo impulso di continuare a scappare
cercando di salvare la propria vita, tornò indietro ed aiutò il
suo comandante a trovare riparo prima e a trascinarlo di peso verso
l’ospedale di campo dopo. Memore di ciò il comandante, a fine
guerra, gli fece ottenere una medaglia al valore militare e di conseguenza il
posto da bidello nelle scuole medie in quanto reduce di guerra benemerito.
Non amava parlare di
questo suo gesto di altissima umanità, preferiva piuttosto parlare della
sua vita trascorsa in America, dove faceva il carnicero, il macellaio, consapevole che
Aveva un occhio di vetro che teneva un
poco più chiuso dell’altro, un sorriso con la bocca un poco storta
ed un’ironia che ti faceva sorridere prima ancora di avere raccontato del
tutto le sue storie. Anche se dal contenuto spesso drammatico lui riusciva sempre
a trovare nei suoi racconti il lato umoristico, tipo le sue liti con
Gesù o con San Biagio quando non riusciva a pescare nemmeno il pesce
occorrente a sfamare i suoi figli, questi erano quattro, tra cui due gemelli i
quali, essendo nati molto piccoli subito vennero soprannominati mezzochilo dal presunto loro peso.
Gridava sulla spiaggia, una volta, dopo essersi tolto riverentemente il basco
dalla testa, dicendo che Gesù si era sbagliato a pensare che fosse stato
lui a metterlo in croce, in quanto lui in quel tempo non era ancora nato,
quindi era ingiusto quell’accanimento contro la sua persona che, pur
lavorando come una bestia non riusciva a provvedere come voleva alla sua
famiglia.
Quando io l’ho
conosciuto, prima come bidello alle
Scuole Medie, poi come marinaio accanito, era già una persona agiata:
bella casa, bell’orto da lui ben curato e bella barca sorrentina, con cui pescava con le reti
di fondo e di superficie. Amava rischiare le sue reti quando il tempo non era
buono, in quanto sapeva che il mare “quando
sentiva di tempo” nel senso che quando era in peggioramento, era
più pescoso. Infatti, mi chiamò una volta per aiutarlo a togliere
precipitosamente le reti sulla Secca della Giumenta,( una grande secca al largo
di Marina di Maratea ), perché il mare, diventato improvvisamente molto
mosso, rischiava di rovinarle tutte. Abbiamo faticato tantissimo e rischiato
non poco, ma alla fine abbiamo recuperato, con pochi danni, tutte le reti che
erano piene di pesci. Per premiarmi dell’aiuto e dal grande lavoro di
braccia che avevo dovuto fare, mi regalò più pesci di quanti ne
restassero a lui.
Ma lui era susto, appassionato cioè di una
pesca particolare che si chiama minaita.
La pesca delle alici con una rete a piccole maglie che le seleziona una per
una. Per dare una idea basta pensare che, mentre il cingiorro, (sistema moderno per la pesca delle alici), ne prende
quintali alla volta, la minaita è la pesca che prende le alici una alla
volta, quindi per pescare cinquanta chili di alici con questo tipo di pesca
bisogna lavorare tanto. Occorre prima trovarle, poi pescarle e poi toglierle
dalla rete una alla volta.
Io avevo fatto tanti tipi
di pesca con tutti i marinai del Porto ma alla minaita non ero mai andato, anche perché mi dicevano che era
un lavoraccio, specialmente con Gerardo
che era infaticabile ed era capace di farti sgobbare tutta
Chi era intenditore sapeva
che le alici di minaita erano le
migliori in assoluto mentre a Massa, una frazione di Maratea, non se le
comperavano perché, vedendole senza la testa, pensavano che non fossero
fresche, dal momento che, le alici si guardano negli occhi per testarne la
freschezza.
Gerardo trascorreva intere
invernate, rischiando l’unico occhio che aveva a preparare queste reti
per le alici ed in primavera cercava di racimolare una piccola ciurma per
andare a pescarle.
Un giorno mi chiamò
e mi chiese se ero disposto ad andare a pescare con lui, mi disse che con lui
c’era già Blasitto il Nachiero, conosciuto marinaio del Porto
e quindi con me la ciurma sarebbe stata al completo. Mi rassicurò
dicendomi che non mi sarei bagnato perché mi avrebbe dato il compito di
remare a prua, lontano quindi dalla rete. Io gli dissi che non sapevo come si
pescasse e che quindi non si doveva aspettare da me grandi prestazioni ma che
ero disponibile ad imparare.
Nel tardo pomeriggio di un
giorno del mese di aprile, con una busta contenente una grossa colazione, scesi
al Porto, un poco emozionato ma contento, come lo sono sempre quando vado a
pesca, per imbarcarmi sulla barca di Gerardo.
Lui e Blasitto erano già
pronti, con la rete già in barca e appena mi vide Gerardo, con il suo sorriso ironico mi disse: Sagli tridicicò - il mio soprannome era u figliu i tridicicocci- e mi fece notare che ero un poco in
ritardo.
Ci avviammo lentamente
verso ponente e mentre Blasitto
teneva tra le gambe il timone, Gerardo preparava le cime e dei grossi sugheri
per calare in mare le reti. Era ormai il tramonto e Gerardo mi disse che dovevamo
fare il sinnotto al largo di
Fiumicello. Il sinnotto consisteva
nel calare una piccola parte delle reti, farle pescare nella corrente di
superficie per qualche tempo e poi sondare se fossero ammagliate delle alici.
Dal loro numero e dalla direzione che avevano, lui riusciva a capire dove
bisognava calare il resto della rete oppure se bisognava cambiare zona. Per
togliere le alici dalla rete bisognava che questa salisse sulla barca sempre
aperta e tesa, per ottenere ciò, bisognava remare nel senso opposto alla
direzione delle reti e in maniera costante. Facemmo il sinnotto al largo di Zanlurito,
fuori Fiumicello e non ottenemmo risultato. Gerardo ironizzava guardando le uniche tre alici sulla poppa che
avevamo pescato ed accennò un noto proverbio: chi granu voi meti cu una spiga! Ma subito dopo disse che
dovevamo riprovare fora u bastimentu a l’armu, una
zona al largo di Cersuta, altra frazione di Maratea, e poco più avanti
di dove eravamo. Ricalammo una parte della rete, risondammo e questa volta le alici
furono più numerose, continuammo quindi a calare tutte le reti secondo
le indicazioni di Gerardo. Dovendo aspettare qualche ora ne approfittammo per
mangiare il tozzo di pane come si
soleva dire. Nel mio c’era una serie di fette di soppressata paesana che
in quel contesto aveva un sapore senza uguali. Gerardo mi offrì un
bicchiere di vino fatto da lui, puntualizzando che era famoso per i suoi vini agri- come era scritto sulla
cantina di una sua parente- e che quindi prima di berlo mi dovevo reggere per
non rischiare di cadere in acqua. A questo punto, visto che dovevamo ancora
aspettare e che eravamo allegri, decisi di raccontare un finto fatto realmente accaduto per ironizzare sulla sua
condizione di orbo. Gli dissi che un giorno ad un marinaio a cui mancava un
braccio e in sostituzione aveva montato il runciglio
quella specie di gancio ricurvo in uso tra i pirati, era successo uno
spiacevole incidente. Mentre puliva la sua barca, gli schizzò una squama
in un occhio e lui, nel tentativo di togliersela aveva sbagliato mano cavandosi
l’occhio col runciglio.
Ci facemmo una sonora risata e lui disse che il suo unico occhio non correva questo rischio in quanto non usava il runciglio ma aveva capito benissimo che alludevo a Biasi u Pacciu altro marinaio monco col quale forse aveva lavorato in America e di cui si raccontavano vari aneddoti.
Iniziammo a togliere le
reti, Gerardo e Blasitto stavano a poppa a recuperarle e a smagliare le alici
mentre io stavo seduto sul boccaporto di prua con due grandi remi tra le mani
per agevolare loro il compito,e facevo salire la rete nel modo più
comodo possibile. Il lavoro mio era monotono ed ogni tanto mi distraevo facendo
volare la mente chissà dove e venivo regolarmente richiamato
all’ordine da una voce che in modo autoritario diceva: mandeni! Significando che dovevo remare.
La pesca scorreva senza particolari emozioni e dopo un paio di ore abbiamo
recuperato tutte le reti pescando due cassettine di alici ed una di sardine.
Ero stanco e pensavo che Gerardo,
ormai pago, avrebbe deciso di ritornare al Porto, invece si rivolse verso di me
e disse: Tridicicò, mo iamu ad
aspittà ca esci la stella fora a Signuredda o fora u Pizzu a Chiana.
Non avevo capito cosa volesse dire ma avevo comunque capito che non si trattava
di qualcosa di buono. Chiesi chiarimenti a Blasitto
che, con un mozzicone di sigaretta spento tra le labbra, mi disse che dovevamo
recarci verso Praia a Mare, punto diametralmente opposto a dove eravamo e
lì aspettare il sorgere di una stella per pescare fino a giorno
inoltrato. A Signuredda era una
montagna del gruppo del Pollino che faceva da segnale e U Pizzu a Chiana era una secca abbastanza profonda al largo della
Secca di Castrocucco, la frazione più a sud di Maratea. Detto ciò
Gerardo accelerò il motore e si diresse verso il punto indicato. Faceva
freddo e nel passare dopo l’isola di Santo Janni trovammo un vento gelido
e di forte intensità che faceva salire a bordo gli schizzi d’acqua
bagnandoci. Speranzoso pensavo che da un momento all’altro Gerardo dirigesse la prua verso il Porto
vedendo le condizioni del tempo avverse, ma lui esordì dicendo: chistu è malipirtusu, è
bontempu. Malipirtusu è il
nome del vento locale che spira solo quando il tempo è buono quindi
dovevamo pure essere contenti di morire di freddo e essere bagnati. Durante la
navigazione dopo che gli spruzzi mi avevano abbondantemente bagnato, decisi di
calarmi dentro il boccaporto e sparire per un poco sotto la prua della barca,
mentre Gerardo e Blasitto restarono a poppa dentro delle giacche di tela incerata
accovacciati e spruzzati dal vento. Tra cassettine vuote di pesce e attrezzi
vari riuscii a crearmi un piccolo spazio sotto la prua dove poggiare anche la testa
e sonnecchiare nonostante la puzza di umido che si mescolava a quella del
gasolio e a quella di pesce emanata dalle cassettine. Quando sentii il motore
diminuire di giri mi accorsi che eravamo arrivati e subito cacciai la testa
fuori dal boccaporto e mi strizzai con le mani gli occhi. Tridicicò, teniti prontu ca calamu i rizzi mi disse Gerardo annunciandomi che eravamo
arrivati. Mi mostrò la sagoma di una montagna che compariva dietro
un’altra e mi disse: chidda
è a Signuredda, appena sorgi la stella calamu (quella montagna
è
A pesca con lui ci andai
qualche altra volta , soprattutto a togliere le merluzzare, un sistema di pesca al merluzzo con le reti, meno
faticoso e più redditizio.
Un giorno lo stavamo
aspettando al porto per comperare il merluzzo e, invece di ormeggiare al solito
posto, lo vedemmo dirigersi precipitosamente verso la spiaggia e notammo che la
barca era quasi affondata, riuscì appena ad arrivare. Gli andammo
incontro e vedemmo che aveva a bordo oltre alle reti anche uno squalo vacca di
oltre tre quintali di peso. In genere appena finito di togliere le reti, Gerardo le rimollava in acqua e se ne tornava
a terra solo col pesce pescato, quella volta, invece, le reti erano
pesantissime ed impiegò molto più tempo del dovuto, in più
aveva pescato quel grosso pesce, per cui, dai fori da dove di solito usciva
l’acqua cominciò invece ad entrare perché il peso aveva
abbassato di molto la linea di galleggiamento, inoltre, avendoci raccolto le
reti sopra non li poté nemmeno otturare per cui fu un miracolo che non
affondò. U mari non ti ni pirdoni
manc’una - Il mare non ti perdona gli errori - fu il commento di Gerardo quando finalmente si accorse
dello scampato pericolo.
Anche lui ha lasciato un’orma profonda nella storia del Porto e ricompare spesso negli episodi di vita locale che si raccontano.