U Conti

di Aldo Fiorenzano

Un personaggio che ha lasciato una profonda traccia del suo passaggio a Maratea è stato senza dubbio il Conte Rivetti di Valcervo, un industriale piemontese che ha impiantato un lanificio nella zona di Fiumicello alla fine degli anni ‘50, ha costruito l’hotel Santavenere e ha scelto come sua abitazione la torre di Santavenere, da lui opportunamente fatta restaurare e ampliare.

Sia il Lanificio che l’Albergo sono stati il primo vero tentativo di industrializzazione a Maratea.

Su di lui sono state scritte tante storie sia in positivo che in negativo, addirittura delle tesi di laurea avevano come titolo il suo nome.

I miei due fratelli hanno iniziato a lavorare, ancora minorenni, nella sua fabbrica, la R1 (Rivetti 1) e i primi personaggi noti, come Silvana Pampanini e Indro Montanelli li abbiamo conosciuti grazie a lui che li aveva invitati e ospitati nel suo albergo di prima categoria. Il primo motoscafo Riva io l’ho visto ormeggiato nella sua darsena ed era di sua proprietà.

Comunque il mio intendo è di raccontare soltanto l’impatto che il Conte ha avuto con il mare e viceversa .

Appena finito l’hotel Santavenere, fece costruire nei pressi un piccolo approdo, la Darsena che gli serviva per ospitare le sue barche, ne aveva quattro: la Mozzarella, la Citrosella, la Marzaiola e la Matrella, poi come motoscafo veloce aveva il lussuoso RIVA, motoscafo che ha caratterizzato un’ epoca.

Il Conte si rese subito conto che Maratea, non avendo vie veloci di comunicazione, tipo aeroporti o autostrade, bisognava almeno di un Porto attrezzato, essendo la via del mare, in quel tempo, la più percorribile velocemente.

In compenso avevamo la Ferrovia. Era stato da poco ultimato il doppio binario e lui si prodigò per fare effettuare la fermata, nella nostra stazione, dei treni più importanti.

Mi ricordo che mi soffermavo a guardare il RIVA, come oggi un ragazzo ammira l’ultimo prototipo della Ferrari. Mi piaceva il rombo del motore, come filava sull’acqua, come alzava la prua per fendere l’onda, la scia bianca che si lasciava dietro e come metteva in risalto le gambe della Pampanini. Feci subito amicizia con Libertino, il marinaio che lo guidava e tanto gli girai intorno fino a quando non mi fece fare un velocissimo giro. Qualche anno dopo lo guidai fino a Palinuro: provai un’emozione che accrebbe ancora di più la mia passione per il mare. La barca che, invece, ho seguito maggiormente fu la Mozzarella che sopravvisse molti anni in più di tutte le altre, essendo la più bella a la più grande. Era una pilotina di una decina di metri con la quale il Conte amava uscire e portare in giro la sua famiglia e i suoi ospiti. La tenevamo noi in consegna. Io lavoravo con una cooperativa che forniva assistenza nautica alle barche da diporto. Poiché la barca era ormai vecchia spesso mostrava degli acciacchi e noi temevamo molto le ire del Conte il quale alternava a momenti di grande gentilezza altri di grande scortesia. Un giorno il mio amico e compagno di lavoro, Michele, si recò sotto il Santavenere con la Mozzarella per imbarcare il Conte e alcuni ospiti. Dopo avere imbarcato il pasto,( una bella insalata di riso in un grosso e lussuoso contenitore portato da Pasquale, il cuoco personale del Conte ), si portò a prua per agevolare l’imbarco degli ospiti e gentilmente porse la mano ad una bella signora per farla salire, ma questa, poggiandosi su un candelabro, che faceva da reggicorda per il passamano, in modo pesante, lo scardinò e rischiò di cadere in acqua. A questo punto il Conte si adirò e sgridò Michele dicendogli di non essere stato accorto nei confronti della signora e terminò imprecando… Cooperativa del c... . Michele, essendo del tutto innocente, non resistette alla voglia di replicare - cosa del tutto inusuale in quel tempo per le conseguenze che ne potevano scaturire - e disse: Signor Conte, non cooperativa del c..., casomai barca del c.... .

Fu l’ultima volta che Michele mise piede su quella barca.

Un giorno al Conte venne l’idea di andare a pescare con la sua barca, insieme ad un suo figlio, i pescespada, che nel mese di ottobre transitano proprio al largo di Maratea.

Telefonò alla cooperativa e chiese due persone che lo potessero condurre a pescare i pescespada. Fummo scelti io e Salvatore, detto Toruccio. Preparai quindi una coffa di 150 ami e comperai una cassetta di sardine. Al mattino di buon’ora imbarcammo il Conte e suo figlio e ci dirigemmo verso il largo. La Mozzarella era una barca molto spaziosa con cabina centrale, a poppa c’erano dei cuscini e delle poltrone a forma di pera, piene di palline di polistirolo che prendevano forma intorno a chi vi si sedeva, avvolgendolo. Quando il mare era calmo erano molto comode ma quando era mosso non ci si poteva sedere perché si cadeva o da un lato o dall’altro.

Avevo preparato tutto e pianificato il lavoro da fare: io dovevo guidare la barca, filare a mare la coffa e legare i galleggianti mentre Toruccio doveva innescare le sardine all’amo e buttarle in acqua mano a mano che il filo scorreva. Eravamo arrivati sulla zona dove calare le coffe e Toruccio se ne stava seduto sprofondato in una di queste poltrone. Sfortunatamente nel tentativo di alzarsi fece un movimento strano che gli causò uno strappo alla schiena, una specie di colpo della strega molto doloroso che lo fece restare seduto immobile. Ad ogni tentativo di alzarsi seguiva un tremendo grido di dolore. Avvisai il Conte dell’accaduto e gli chiesi cosa fare, gli dissi anche che Salvatore poteva stare solo seduto e che non mi avrebbe potuto aiutare, quindi toccava a lui o al figlio mettere le coffe se mi volevano aiutare. Dopo breve consulto acconsentì ad aiutarmi ed io gli feci un corso accelerato di innesco della sardina all’amo. Con una mano doveva reggere la sardina e con l’altra doveva prendere l’amo dalla coffa, infilzarlo negli occhi della sardina e, appena il filo si tendeva, buttarla in acqua. Non potrò mai dimenticare il senso di schifo che compariva sulla faccia del Conte ogni qual volta prendeva con le mani la sarda e con quanto timore gli ficcasse l’amo negli occhi, quasi timoroso di fargli del male.

Nonostante andassi ad un’andatura lentissima con la barca, non faceva mai in tempo ad innescare la sarda prima che il filo si tendesse ed io, per paura che si potesse pungere con l’amo, ero costretto a fare lunghe marce indietro col motore.

Impiegammo molto più tempo del dovuto ma alla fine ci riuscimmo. Portammo Toruccio a terra dove fu soccorso dal suo medico curante e ritornammo a togliere le coffe.

Pescammo sei piccoli pescespada che pesavano 4 o 5 chili ciascuno e la loro cattura fu divertente in quanto erano vivi e combattevano tenacemente, infatti, uno si slamò proprio sotto la barca, mentre lo tiravo in coperta.

Giunti a terra ‘U Conti - così lo chiamavamo - mi ringraziò tanto, mi diede una buona mancia e mi regalò due pescespada.

I Conti hanno di queste gentilezze.

 

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