di Aldo Fiorenzano
Un
personaggio che ha lasciato una profonda traccia del suo passaggio a Maratea
è stato senza dubbio il Conte Rivetti di Valcervo, un industriale
piemontese che ha impiantato un lanificio nella zona di Fiumicello alla fine
degli anni ‘50, ha costruito l’hotel Santavenere e ha scelto come
sua abitazione la torre di Santavenere, da lui opportunamente fatta restaurare
e ampliare.
Sia
il Lanificio che l’Albergo sono stati il primo vero tentativo di
industrializzazione a Maratea.
Su di
lui sono state scritte tante storie sia in positivo che in negativo,
addirittura delle tesi di laurea avevano come titolo il suo nome.
I
miei due fratelli hanno iniziato a lavorare, ancora minorenni, nella sua
fabbrica,
Comunque
il mio intendo è di raccontare soltanto l’impatto che il Conte ha
avuto con il mare e viceversa .
Appena
finito l’hotel Santavenere, fece costruire nei pressi un piccolo approdo,
Il
Conte si rese subito conto che Maratea, non avendo vie veloci di comunicazione,
tipo aeroporti o autostrade, bisognava almeno di un Porto attrezzato, essendo
la via del mare, in quel tempo, la più percorribile velocemente.
In
compenso avevamo
Mi
ricordo che mi soffermavo a guardare il RIVA, come oggi un ragazzo ammira
l’ultimo prototipo della Ferrari. Mi piaceva il rombo del motore, come
filava sull’acqua, come alzava la prua per fendere l’onda, la scia
bianca che si lasciava dietro e come metteva in risalto le gambe della
Pampanini. Feci subito amicizia con Libertino, il marinaio che lo guidava e
tanto gli girai intorno fino a quando non mi fece fare un velocissimo giro.
Qualche anno dopo lo guidai fino a Palinuro: provai un’emozione che
accrebbe ancora di più la mia passione per il mare. La barca che,
invece, ho seguito maggiormente fu
Fu
l’ultima volta che Michele mise piede su quella barca.
Un
giorno al Conte venne l’idea di andare a pescare con la sua barca,
insieme ad un suo figlio, i pescespada, che nel mese di ottobre transitano
proprio al largo di Maratea.
Telefonò
alla cooperativa e chiese due persone che lo potessero condurre a pescare i
pescespada. Fummo scelti io e Salvatore, detto Toruccio. Preparai quindi una
coffa di 150 ami e comperai una cassetta di sardine. Al mattino di
buon’ora imbarcammo il Conte e suo figlio e ci dirigemmo verso il largo.
Avevo
preparato tutto e pianificato il lavoro da fare: io dovevo guidare la barca,
filare a mare la coffa e legare i galleggianti mentre Toruccio doveva innescare
le sardine all’amo e buttarle in acqua mano a mano che il filo scorreva.
Eravamo arrivati sulla zona dove calare le coffe e Toruccio se ne stava seduto
sprofondato in una di queste poltrone. Sfortunatamente nel tentativo di alzarsi
fece un movimento strano che gli causò uno strappo alla schiena, una
specie di colpo della strega molto
doloroso che lo fece restare seduto immobile. Ad ogni tentativo di alzarsi
seguiva un tremendo grido di dolore. Avvisai il Conte dell’accaduto e gli
chiesi cosa fare, gli dissi anche che Salvatore poteva stare solo seduto e che
non mi avrebbe potuto aiutare, quindi toccava a lui o al figlio mettere le coffe
se mi volevano aiutare. Dopo breve consulto acconsentì ad aiutarmi ed io
gli feci un corso accelerato di innesco della sardina all’amo. Con una
mano doveva reggere la sardina e con l’altra doveva prendere l’amo
dalla coffa, infilzarlo negli occhi della sardina e, appena il filo si tendeva,
buttarla in acqua. Non potrò mai dimenticare il senso di schifo che
compariva sulla faccia del Conte ogni qual volta prendeva con le mani la sarda
e con quanto timore gli ficcasse l’amo negli occhi, quasi timoroso di
fargli del male.
Nonostante
andassi ad un’andatura lentissima con la barca, non faceva mai in tempo
ad innescare la sarda prima che il filo si tendesse ed io, per paura che si
potesse pungere con l’amo, ero costretto a fare lunghe marce indietro col
motore.
Impiegammo
molto più tempo del dovuto ma alla fine ci riuscimmo. Portammo Toruccio
a terra dove fu soccorso dal suo medico curante e ritornammo a togliere le
coffe.
Pescammo
sei piccoli pescespada che pesavano 4 o 5 chili ciascuno e la loro cattura fu
divertente in quanto erano vivi e combattevano tenacemente, infatti, uno si
slamò proprio sotto la barca, mentre lo tiravo in coperta.
Giunti
a terra ‘U Conti - così
lo chiamavamo - mi ringraziò tanto, mi diede una buona mancia e mi
regalò due pescespada.
I Conti hanno di queste gentilezze.