Dal libro di Sergio De Nicola:
Maratea parliamone ancora
Posci e i mitici pescatori di Maratea
Non una favola ma un episodio reale quello che accadde a
Raffaele Damato, mitico pescatore di Maratea Porto, meglio
conosciuto come Posci, che si vide salvata la vita
da una grossa cernia che doveva essere sua preda.
In una cronaca di Pasquale E. Iannini riportata su Il Popolo di Roma il 15 maggio 1933,
si racconta come il Damato, inseguendo una grossa cernia, si trov incastrato
tra gli scogli sui fondali della Matrella.
Lintuito e la disperazione lo portarono prontamente ad
aggrapparsi alla coda del grosso pesce, che, desideroso di prendere il largo,
lo aiut a superare langustia del luogo e
riguadagnare quella libert di movimenti che gli permise, tutto escoriato, a
riportarsi in superficie, dove trepidanti per la prolungata immersione, lo
attendevano i suoi compagni di pesca.
Tante sono le storie accadute su questo mare, gi bagnato dal
mito per aver raccolto le spoglie di Palinuro, che ancora oggi raccontano i
superstiti pescatori di un tempo.
Sono storie che sanno di coraggio forgiato dalla dura lotta
per vivere; di forza e di istinto alimentato dalla
quotidiana fatica e da uno spirito di osservazione che rendeva i protagonisti
profondi conoscitori dei luoghi e delle abitudini delle loro prede.
Sanno di mito anche i loro nomignoli; U
Muturi, U Nivuru, Bifareddu, Posci, Zu Monicu, U U
U: questi nomi esprimono fedelmente le loro
caratteristiche fisico caratteriali e le loro riconosciute capacit marinare.
Spesso, quando pi forte era la burrasca, rischiando la vita,
con spirito di goliardia affrontavano le onde: ancora oggi si ricorda la morte,
avvenuta in una di queste circostanze, di Saverio Iannini,
detto U Cardinali, che intorno al 1935 non riusc a riguadagnare la riva
trovando esausto la morte, dopo ore di nuoto, a poche decine di metri dalla
spiaggia del Porto. Pi fortunato invece fu Biagio
Lemmo, meglio conosciuto come Biasino dIgnazio,
quando riusc a portare a riva, tra le onde, Mafalda, la sua piccola barca, senza
mollare il resistente filaccione al quale aveva
abboccato un grossissimo pesce che sin dal largo minacciava di farla
capovolgere.
Sono tante le storie di mare che questi vecchi continuano a
raccontare con voce distaccata e uguale: le tingono di quel, senso epico di chi
le ha vissute da solo spesso con temeraria e intuitiva intelligenza nel confronto impari con una natura viva e mutevole avendo,
come testimoni, solo la luna e le stelle che continuano ancora a brillare nei
loro occhi.
Sulle loro barche immancabile era il rametto di ulivo benedetto o il santino della Madonna
e di San Biagio, testimonianza di una religiosit robusta anche se non
pienamente vissuta, pronti ad essere stretti fra le mani ruvide e impregnate di
salsedine nei momenti del pericolo o una lucertola a due code, sequestrata con
tappi di sughero nella cavit di una canna e una grossa chele di gambero peluso, elementi propiziatori di pesche abbondanti,
residuali espressioni di ataviche credulit popolari.
Le barche di cui si servivano i nostri pescatori erano di due
tipi: la capirotula cos chiamata per un
prolungamento della carena sulla prua e la lanza
(lancia) che ne era priva.
Tutte giungevano da Sorrento dove
venivano costruite dalla ditta dei fratelli Aprea; parenti e amici scrutavano
linfinito e lansiosa attesa si trasformava in gioia e festa quando, avvistata
la nuova imbarcazione, la si vedeva avvicinare sempre di pi al lido dopo una
navigazione a remi o a vela, mare e vento permettendo, di oltre ventiquattro
ore.
Lavvent della ferrovia dirad lansia di queste attese: le
barche giungevano ora col treno e dalla locale stazione guadagnavano la
spiaggia del Porto scorrendo su apposite basi di legno dette dialettalmente
carenozzi.
Li ricordo questi pescatori sempre scalzi, a torso nudo e con
i pantaloni rimboccati sulle ginocchia, stendere le reti sella sabbia assolata
o col sigaro in bocca rammentarle sotto una grossa capanna di paglia che
riparava dal sole anche le loro barche.
Li ammiravo in quel ritmico elegante e articolato remare che
leggere faceva scorrere sullacqua le loro imbarcazioni tra il luccichio della
luce del sole che si sfioccava sulla superficie del mare e a sera, con
ritualit sempre uguale, accendere con lacetilene le grosse lampare e con esse
squarciare loscurit della notte e violare la riservata quiete delle
profondit marine.
Il fervore di queste attivit non violava, anche durante i
mesi estivi, quel silenzio che sovrano regnava sulle spiagge e che permetteva
di gustare lo sciabordio del mare sulla sabbia.
Era questa una condizione che permetteva la comunione dellindividuo con la natura e che, come dice Tagore fa anche, nel lavoro, cogliere quellestasi che suscita in ogni senso AMORE e rende luomo partecipe e attore dellinfinita grandezza di DIO.