Dal libro di Sergio De Nicola:

Maratea … parliamone ancora

Fierezza e dignità di una donna di paese

Un calpestio di passi, si sente nelle stradine e sulle gradinate del centro storico, una umanità attonita cerca di immedesimarsi nella serenità che emanano gli spazi contornati da una architettura semplice ma poetica.

Nel silenzio, quasi religioso, il turista attento, fra queste mura e queste stradine, quasi vuole cogliere gli echi di una vita lontana, i profumi e i colori di un tempo, il brusio e i palpiti delle voci di volti ignoti e lontani.

Anche io, percorrendo queste strade, ho sentito una voce: nitida nel tono, arraffata nella pronuncia, chiara nel significato.

Una voce di una donna piccolina ma combattiva, gracile ma energica, dal continuo e nevrotico movimento del capo, tremendamente attaccata ad un angolo della sua terra.

É Feluccia (Reffaella Chiappetta nata a Maratea il 29/07/1897 deceduta il 4 giugno 1970) detta “ la Momma”.

Mi piace ricordarla a chi ha una certa età, come me, e descriverla ai più giovani che forse non ne avrebbero mai sentito parlare.

Essa è una immagine di una Maratea che scompare, fatta di semplicità, di una trasparenza adamantina, di una tenacia ferrea, di una fede incrollabile nelle mete da raggiungere.

La ricordo quando settimanalmente bussava porta per porta, per raccogliere le cinquanta o cento lire, che appena sapeva contare e che raggruppava in un fazzoletto strettamente annodato, il tutto per sostituire le traballanti sedie con nuovissimi banchi nella Chiesa parrocchiale, dove orbitava tutto il suo mondo.

Opera ciclopica per una donna come Feluccia, ma puntualmente portata a termine. Dell’antica Chiesa Madre del suo paese lei conosceva tutto, metro per metro, la si vedeva adirata quando si accorgeva della mancanza ora di un candelabro, ora dei mori del coro, ora di una statua, venduti, troppo superficialmente, forse, a qualche antiquario di turno, da chi ne era tenuto alla gelosa custodia.

Nella sua semplicità, questa donna, di nessuna cultura, istintivamente capiva che, tutto quello che nelle chiese era raccolto, rappresentava una pagina di vita emotiva e religiosa di una comunità e che, comunque, era espressione di quelle ansie e di quei moti dell’anima che messi insieme rappresentano la storia della pietà popolare e pertanto meritevoli di essere gelosamente custodite.

Questa grande verità, che lei, fra pochi, era riuscita ad intuire, non trovava seguito, proprio perché detta da lei, nella maggior parte della gente, e la sua voce adirata si perdeva nel nulla, come i rintocchi di quelle campane, che quotidianamente e con precisione, all’ave Maria andava a suonare.

Spesso la si vedeva con enormi mazzi di fiori, quasi più grandi di lei, che andava raccogliendo per le campagne, onde ornare la sua Chiesa, e unire in un solo profumo le speranze e la fede di tutto un popolo: altrettanto spesso, la si vedeva adirata, quando, sovvertendo canoni fissati dal tempo, la sua Chiesa veniva privata dì questa o di quella funzione religiosa. Per lei, era l’anima del suo paese, che veniva lacerata, con la sua cultura e le sue tradizioni.

Solo ora, a distanza di tanti anni, cioè quando scolaro passavo davanti alla scaletta della sua casa, comprendo  pienamente la fierezza e la dignità del suo carattere.

Voglio perciò ricordarla proprio ora, nel momento in cui giustamente la voce del suo paese non è più la stessa e che trasformazioni veloci sconvolgono la società e il territorio.

La sua fierezza e la sua dignità debbono essere gli elementi cementanti di tutto un popolo che in maniera multiforme progredisce.

La sua fierezza e la sua di­gnità, deve essere come i rintocchi di quelle campane della Basilica di San Biagio, ormai lontane[1], ma che, care al cuore di tutti, continuano a suonare, come suonavano, affinché, come diceva Mons. Damiano, rettore della Basilica, nessuno dimenticasse la sua fede, le sue origini, le sue tradizioni.

Solo alla luce di tali valori, la nostra società, in continuo sviluppo, potrà progredire, conscia della sua storia, senza umiliare o svendere la sua coscienza, senza violentare il suo territorio e compromettere il suo avvenire.

Da “Il Gazzettino del Crati” Maggio 1988

 

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[1] Campana del ‘700, catalogata dalla Sopraintendenza, e mandata a fondere, a suo dire, dal rettore della Basilica, Gennaro Pacelli, Oblato M.I., per sostituirla con una nuova.