‘Na bella pescata!

di Aldo Fiorenzano

Una peculiarità dei marinai è la memoria, molto disponibile a dimenticare anni e anni di delusioni e molto propensa a ricordare per sempre, con grande soddisfazione, quelle poche volte che il mare si è dimostrato benevolo. Ogni marinaio ha nel proprio diario dei ricordi, storie bellissime di grandi pescate. Io non faccio eccezione ed eccone una.

Mi avevano regalato un’aguglia molto grande, l’avevo tenuta in frigo per un paio di giorni e una mattina mi alzai presto per andare a pescare a traina. L’aguglia è un pesce azzurro simile ad un piccolo pescespada e pur essendo un predatore è un’ottima esca per pescare altri predatori più grandi quali ricciole e dentici. Innescata viva alla traina è molto catturante e provoca al pescatore forti scariche di adrenalina in quanto avverte, divincolandosi che un grosso predatore la sta per attaccare allertando quindi colui che traina. Il problema era innescare l’aguglia morta alla traina, ci voleva un ferro particolare che doveva bucare il pesce all’interno della pancia per farvi entrare due ami, uno sotto le branchie e uno sotto la pinna caudale. Di buon mattino bussai alla porta di Beniamino, un noto marinaio del Porto per farmela innescare bene ma già al primo tentativo si accorse che il pesce era ormai vecchio e la pancia si era rotta, mi disse subito che dovevo solo buttarla in quanto innescabile.

Ci restai molto male perché sapevo che c’erano dei branchi di grandi ricciole proprio nelle adiacenze del Porto ed io non avevo altra esca che quella. Non mi persi d’animo, mi procurai un ferro rudimentale e mi accinsi a fare da solo l’operazione di innesco dell’aguglia, la quale si ruppe ancora di più ma io mi cimentai in un’autentica operazione chirurgica, con tanto di punti di sutura. Uscii in mare e calai, con poche speranze nel cuore, la traina. Presi la direzione di Cersuta, verso ponente. Arrivato al largo di Fiumicello vidi saltare sull’acqua delle alici, segno che c’erano dei predatori in giro, accelerai il motore e mi recai sul luogo. Non ero ancora arrivato quando sentii un violento strattone al braccio che reggeva la traina. Mi venne un colpo, avvertii un senso di piacere misto ad ansia ed iniziai una cruenta lotta col pesce. Da come tirava capii subito che si trattava di una grossa preda e mi preoccupai in quanto il sistema che usavo era molto rudimentale. In genere si fa traina a ricciole con una canna al carbonio molto resistente e un mulinello con la frizione che, tenendo conto del carico di rottura del filo, cede un attimo prima consentendone la tenuta e conseguentemente fa stancare velocemente il pesce abboccato. Io avevo soltanto un centinaio di metri di filo avvolto ad un sughero, un piombo di 400 g. e una girella che divideva il filo più doppio da quello più sottile che faceva da terminale. Come frizione usavo le mani che stringevo e mollavo sopra la lenza, il pesce intanto alternava a violenti strattoni momenti di pausa che io sfruttavo per recuperare quel poco di lenza che dovevo rimollare quando strattonava di nuovo. Dalla poppa della barca il filo mi sibilava nelle mani e con le ginocchia muovevo il timone per evitare che la lenza si avvicinasse all’elica. Tirando e mollando mi accorsi che la lenza era quasi finita ed il pesce continuava a volerne, dissi allora al ragazzo che era con me, Mirco, di accelerare un poco il motore e mi decisi ad andare incontro al pesce badando di tenere sempre la lenza tesa; recuperai così una trentina di metri di filo e mi rincuorai, ora potevo lottare con più tranquillità, intanto il pesce cominciava a mostrare i primi segni di stanchezza. Gli strattoni erano sempre di meno e meno violenti. Anche io ero un poco stanco, l’ansia mi aveva fatto seccare la bocca ed avevo il fiatone ma restavo permeato da un senso di piacere misto al timore di perdere il duello; una sensazione poco descrivibile. Tra le varie frasi che sussurravo nel tirare il pesce, c’erano anche delle preghiere alla Madonna, la pregavo di non farmelo perdere con voce supplichevole. Dopo qualche tempo ho pensato che forse non era il caso disturbare la Madre di Dio per così poco, ma in quel momento ne facevo una questione vitale, tanto ne restavo preso.

Intanto altre barche si erano accorte che sulla mia si stava svolgendo una battaglia: un gommone di un amico da poco conosciuto, ma che diventerà in seguito grande e fraterno, seguiva con ansia e apprensione le fasi del recupero badando di tenersi a debita distanza per non intralciare, un’altra barca con a bordo un pescatore subacqueo si avvicinò, mi diede dei consigli e mi chiese se avessi bisogno del raffio o del guadino. Io non rispondevo e provavo un senso di fastidio per questa intrusione perché mi distoglieva l’attenzione e mi faceva perdere concentrazione. Lo sguardo restava sempre fisso verso il pesce che non si vedeva ancora ma la lenza che riuscivo a recuperare si faceva sempre più lunga, diminuiva quindi la distanza tra me e lui ed ero ansioso di vederlo. Tirando ancora la lenza comparì il piombo che era ad una ventina di metri dal pesce. Dopo il piombo il filo diventava più sottile ed il pesce combatteva più a corto, le sue possibilità di spezzare aumentavano ed io di conseguenza aumentai le precauzioni, al minimo accenno di reazione mi facevo scorrere la lenza tra le mani che mi bruciavano, per poi recuperarla velocemente quando il pesce cedeva. Tirai e mollai qualche altra volta, alla fine il pesce, stremato si girò di lato verso la superficie ed emerse. Con una mano serrai la lenza e con l’altra lo feci entrare nel guadino. Emisi un grande respiro liberatorio allorquando mi sedetti sulla murata a guardare quella grande ricciola che ansimava poggiata sul pagliolo della barca. Aveva dei riflessi argentati e pesava 12 chili.

Arrivati al Porto passai sotto la casa di Beniamino e con un poco di cattiveria gli mostrai la ricciola.

Il mare ha di queste vendette.

Le notti successive mi sentii ancora nel sonno tirare il braccio che reggeva la lenza e venni colto da un’ansia piacevole. Come dimenticare... ... .

Il mare dà di queste soddisfazioni.   

 

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