Biasi (u pacciu) e i Giuvannuzzi
di Aldo Fiorenzano
I Giuvannuzzi erano una
famiglia di marinai che abitavano in una casa costruita su uno scoglio, con un
ingresso secondario che conduceva direttamente sullo scoglio Milozzo, proprio
sul Porto di Maratea, ed è una delle case più belle e suggestive
che si possono immaginare, anche se una volta, proprio per queste caratteristiche,
si è rischiata la tragedia. Visto che ne ho fatto cenno ora, per sommi
capi, la voglio raccontare.
In questa casa, quando era
vivo il padre, abitavano tutti insieme i figli Vittorio, Cilarduzzo, Don
Peppino, Tanino “u Colossu” e Biasi “u Pacciu”. Poi,
mano a mano che si sposavano, se ne
andavano ed infine, essendo morto il padre, restarono solo Biasi u Pacciu, l’unico
che non si era sposato, e Cilarduzzo che usava la casa come salone da barbiere,
visto che con una forbice ed un pettine aveva imparato bene l’arte del
Barbiere. Io mi ricordo che andavo in quella casa a farmi fare i capelli da Cilarduzzo con grande piacere perchè, se
da un lato usava un cumulo di reti da pesca come sedile, dall’altro non
usava una fastidiosa macchinetta che, invece di tagliare i capelli, spesso li
sradicava, con grande dolore del povero malcapitato che usava invece
Beccaccino, il barbiere di Maratea Centro.. Sul lato mare della casa
c’era una lunga e bellissima loggia con una ringhiera in ferro battuto
tutta arrugginita che affacciava sulla spiaggia sottostante ed era alta oltre
quindici metri. Maria, la figlia di Cilarduzzo, spesso si portava a casa
Marilina, la figlia di Diego e Franca, due portaioli che pure abitavano in una
casa sita proprio sul Porto. Ricordo che era una bambina esile ma molto vivace,
non ricordo quanti anni potesse avere, ma non più di cinque o sei.
Questa, a furia di correre tra la casa e la loggia, finì per eludere per
un momento, l’attenzione di Maria e si affacciò giusto in un punto
della loggia dove mancava un ferro nella ringhiera, col risultato che,
sporgendosi, perse la presa e precipitò nel vuoto, raggiungendo la
spiaggia sottostante. Quando Maria se ne accorse, sgomenta, prima si
affacciò e la vide immobile sulla spiaggia, poi si precipitò a
raggiungerla e nel contempo diede l’allarme. Fu condotta subito in
ospedale e soccorsa. A parte la frattura della mascella - (sicuramente qualche
angelo l’aveva aiutata) - e qualche piccola escoriazione, nonostante
l’enorme volo che aveva fatto, non presentava particolari danni fisici.
Quello che mi è rimasto impresso nella mente è la disperazione di
Franca, sua madre, quando vide la sua esile figliola, essere condotta esanime
in ospedale, lei sempre iper attenta e iper preoccupata. Ricordo anche la
faccia di Diego - (defunto ormai da tempo)- padre disperato e furibondo che
colpevolizzava la madre, ritenendo che non l’avesse guardata come doveva,
pur sapendo con quanto scrupolo essa teneva a bada i cinque discoli figli che
avevano.
Io sono un fraterno amico
di Michele, fratello di Marilina e quando andammo a vedere il posto da dove era
caduta, veramente ci rendemmo conto della miracolosità
dell’evento.
Dopo questo doveroso inciso torniamo ai Giuvannuzzi.
Io non mi ricordo del
padre, ne ho solo sentito parlare, in compenso ho conosciuto bene tutti i figli
ed ognuno di loro aveva una peculiarità nell’arte della pesca.
Avevano una lunga barca che prima navigava a remi -( ne aveva tre coppie ) - poi
a motore, un Enfield , inglese, a presa diretta, con la quale facevano
prevalentemente la pesca della lampara per la cattura delle alici. Cilarduzzu
era specializzato nella pesca della lampara e delle cernie, di ambedue era
maestro indiscusso, inoltre pescava col rizzacchio, una sorte di rete volante
per la cattura dei pesci che mangiavano in superficie. Sapeva costruire le reti
di sana pianta oltre che ripararle. Era anche il barbiere di tutti i portaioli
e i fiumicellari - Fiumicello è un’altra piccola frazione di
Maratea. Usava una tecnica particolare con la forbice: l’apriva e
chiudeva in continuazione mentre tagliuzzava qualche ciuffo di capelli
facendone sentire in continuazione il rumore. Alla fine quasi sempre noi
ragazzi ne uscivamo rapati a zero, ma contenti in quanto Beccaccino, il suo
concorrente di Maratea ci rapava con la macchinetta, aggeggio infernale che
spesso estirpava i capelli dalla radice, con relativo dolore tremendo.
Amava vendere le cernie
che pescava ancora vive, quindi nel Porto, le legava con una robusta cima
facendola passare tra le branchie e la bocca, poi legava
l’estremità della cima sulla barca ancorata e le faceva pascere
sotto, badando che nelle vicinanze non vi fossero tane raggiungibili. Questo
durò fino a quando un bel giorno andò per prendere la cernia che
aveva venduto e non vi trovò che il filo tagliato. Se l’erano
rubata, segno che i tempi stavano cambiando ed il Porto non era più
l’isola felice dove nessuno toccava le cose altrui .Conosceva il fondo
del mare come le sue tasche, non solo conosceva le tane delle cernie, ma anche
le dimensioni delle cernie che solitamente l’abitavano. Quando non
riusciva a disincagliare il filaccione con la cernia abboccata, spesso chiamava
Andrea, un notissimo subacqueo che con grande maestria recuperava sia il
filaccione che la cernia. Dalla scuola di Andrea uscì poi Giovanni,
figlio di Cilarduzzo a cui qualche volta toccò il compito di Scarammare i filazzuni arrancati.
Quando la cernia era
grande, spesso Luisa, sua moglie, la tagliava a pezzi e la vendeva al minuto e
mia madre, quando aveva i soldi sufficienti, non si lasciava scappare
l’occasione di comprare un pezzo di testa e una trancia di polpa con le
quali faceva una zuppa il cui odore si sentiva a centinaia di metri di distanza
e nella quale noi figli inzuppavamo panelle intere di pane.
Sovente mi trovavo a
pescare con la canna vicino a Cilarduzzo il quale mi aveva in simpatia e quando
mi vedeva perdere qualche pesce mi chiamava “ terrazziere “ .
Ricordo molto bene le sua
resistenza verso i nuovi metodi di pesca e le sue liti con Ermindo, un
pescatore di alici di Castellabate che non si fidava del suo fiuto bensì
credeva solo nell’ecoscandaglio, uno strumento elettronico che vedeva le alici anche a grande
profondità. Cilarduzzo si è dovuto ricredere una notte che, pescando
con Ermindo, pur non vedendo nessun movimento sotto la luce, hanno pescato
quattrocento cassettine di alici.
Vittorio, altro fratello,
era un pescatore di lampara, era il più loquace della famiglia ma non
aveva molto entusiasmo per il mare. Era emigrato in America ma ne aveva fatto
ritorno, ed era vissuto a Fiumicello con la sua famiglia formata da moglie e
due figli.
Tanino, altro figlio, era
soprannominato “ U Colossu” in barba alla sua piccola statura, era
il più basso della famiglia ed era noto come un grande mangiatore di
spaghetti. La moglie ne cucinava un pacco da un Chilo e glielo serviva in una
zuppiera, lui si giustificava dicendo che dopo aver mangiato il Kg. di
spaghetti non voleva niente per secondo.
Don Peppino, altro
fratello, era un bravo pescatore con le reti. Di indole taciturna, passava
moltissimo tempo a rattopparle. Quando si vendettero la barca di famiglia, lui
se ne fece una più piccola ma molto garbata: la Maristella con la quale pescava e manteneva decorosamente la sua
famiglia. La moglie e la cognata vendevano il pesce che lui pescava e tre figli
maschi completavano la famiglia.
Ho lasciato per ultimo
Biagio, un personaggio particolare, il meno lavoratore e quindi considerato la pecora nera della famiglia,
l’unico a non essersi sposato, avendo condotto una vita da sbandato tra
l’America del Sud e Maratea. Aveva perso la mano destra in un incidente
del quale si raccontavano due versioni: la prima affermava che si era ferito
mentre faceva il bombarolo, stava cioè buttando una rudimentale bomba
sopra un branco di pesci, i quali si erano improvvisamente dileguati. Lui, non
vedendoli più spense con due dita la miccia che aveva appena acceso e,
tutto concentrato a guardare dove fossero finiti i pesci, non si accorse che la
miccia continuava a fumare. Non sentì nemmeno la voce del fratello che
con la sigaretta fra le labbra gli diceva “ Bià vi ca vidu
fumu” -( Biagio attento che vedo del fumo) - Fatto sta che ad un certo
punto ci fu una violenta esplosione che si portò via la mano di Biagio.
La seconda versione fu
quella che gli era scoppiato in mano un ordigno della Seconda Guerra Mondiale
che si trovava accidentalmente ai lati di un viottolo che conduceva a mare.
In America aveva aperto un
piccolo bar con Caramello, altro
celebre personaggio del Porto e le cose erano andate discretamente bene fino a
quando non comperarono una macchina per il caffè a pressione che
scoppiò per eccesso di pressione in quanto mal regolata e che bruciò
un braccio a Caramello. Era partito per l’America perchè il suo
unico tentativo, di cui sono a conoscenza, di fidanzarsi con una bella donna
del Porto, era finito a colpi di rasoio con uno zio di questa e che gli aveva
lasciato una profonda cicatrice sulla testa.
Io l’ho conosciuto e
frequentato quando viveva in una cameretta datagli in fitto, guarda caso, da
Caramello proprio sul Porto. Era in continua rivalità con tutti gli
altri vecchi pescatori ed era geloso soprattutto di Antonio di Rosa, Felipe e
Biasi ‘i Sambrancischeddu, un giocherellone che ne combinava di tutti i
colori. Noi giovani del Porto avevamo il problema di far trascorrere le
interminabili giornate invernali, monotone e fredde. Spesso ci riunivamo
davanti ad un negozio di articoli nautici, proprio sul porto gestito da Michele i cià cià, un
personaggio che raccoglieva le lamentele di Biagio
u paccio e le sue gelosie , nello stesso tempo gli dava delle false notizie
riguardanti Antonio di Rosa o Felipe o
Biagio i Sambrancischeddu. Ne venivano fuori delle storie spesso degne di
un film. Mi rammarico del fatto di non essere in grado di rendere giustizia,
con lo scritto, alle scenette cui sono stato partecipe, ma qualcuna
proverò a raccontarla.
Biasi i Sambrancischeddu
era un personaggio di Maratea che aveva fatto come mestiere il guardiano
notturno e, quando andò in pensione, continuò a dormire qualche
ora il giorno e a vegliare quasi tutta la notte. Era un virtuoso con la
chitarra, talento naturale che caratterizzava tutta la sua famiglia e spesso
cantavamo insieme vecchie canzoni. Un giorno Michele, il gestore del negozio,
disse a Biagio che aveva saputo che Sambrancischeddu, nonostante
l’età, la moglie e otto figli di cui sette femmine, si era trovato
un’amante e che lo stesso giorno aveva un appuntamento telefonico con
essa nel suo negozio. Lo raccomandò sulla segretezza della notizia e gli
disse l’ora in cui l’amante avrebbe telefonato per prendere un
appuntamento notturno.
Puntuale arrivò la
telefonata e puntuale si trovò Biagio ad ascoltare il colloquio tra
Sambrancischeddu e l’amante. Biagio sentì chiaramente che si
sarebbero incontrati verso le tre e mezza di notte e lui avrebbe acceso e
spento più volte la luce della sua cucina come segnale convenuto per
l’incontro. La prima cosa che fece Biagio fu di convocare me e altri
ragazzi e, alla faccia della segretezza, ci disse che quel porco fottuto di Sambrancischeddu aveva una “petaccia” così lui definiva
le amanti e che se non ci credevamo dovevamo attendere con lui le tre e mezza
di notte, per coglierli sul fatto. Con questa storia Michele gli faceva trascorrere
intere nottate sveglio, a controllare segnali che effettivamente
Sambrancischeddu faceva. Spesso poi, durante il giorno, quando giocava a carte
con gli amici al bar, tra una giocata e l’altra lo si sentiva russare.
Spesso Michele riceveva
delle propagande che recavano a grandi caratteri lo scritto “ LEI HA
VINTO “, li conservava e poi, quando doveva effettuare dei pagamenti o
pagare delle bollette si portava i soldi in contanti nel negozio e li dava di
nascosto a Sambrancischeddu per effettuare i pagamenti. Poi chiamava Biagio e,
sempre in assoluta segretezza, gli faceva vedere una di quelle propagande,
dicendogli che era un’ennesima vincita di Sambrancischeddu. Lui era un po'
titubante ma ad un certo punto, questi arrivava tutto contento, si abbracciava
e si baciava con Michele e tirava fuori dalla tasca un bel malloppone di
banconote nuove di zecca. Biagio si rodeva dall’invidia e appena ci
vedeva, ci chiamava e diceva: “É
la terza vota chi chiovi sempi intu stessu ortu, l’aggiu vistu cu
l’occhi mei ì na posta e ricogli nu saccu i soldi”
(É la terza volta che piove sempre sullo stesso orto, l’ho visto
coi miei occhi andare alla posta e ritirare un sacco di soldi).
Sambrancischeddu si divertiva un sacco e raccontò una sera che era stato
fermato a Maratea Centro da Biasucciu, il gestore della lavanderia e lo aveva
pregato di consegnare a Biagio un fiasco di vino paesano. Glielo mandava
perchè Biagio precedentemente gli aveva mandato una bella murena
già spellata. Sambrancischeddu lo rassicurò dicendogli che la
prima cosa che avrebbe fatto, arrivando al Porto, sarebbe tata la consegna del
vino.
Arrivato al Porto invece
andò direttamente a casa sua, si prese il fiasco di vino buono lo sostituì
con del vino acetoso che aveva in cantina e lo consegnò a Biagio. La
sera del giorno dopo Biagio rivide Sambrancischeddu, lo chiamò e gli
disse: “E chi vino!!!” volendo significare che si trattava di una
specialità. Sambrancischeddu gli rispose: “Mu ‘mmagginu”
ridendo sotto i baffetti.
Biagio era molto geloso di
Antonio di Rosa che spesso ci invitava a mangiare e giocare a carte a casa sua.
Poichè quest’ultimo soffriva di gotta, spesso zoppicava in quanto
l’acido urico gli faceva gonfiare le caviglie, Biagio, invece
l’attribuiva al fatto che esagerava nel mangiare avendo di continuo degli
ospiti in casa. Michele, come al solito, gliene diede conferma un giorno che mi
vide scaricare da un autofurgone due cassettine di gamberoni, una di scampi, un
sacchetto di cozze e uno di vongole, due cartoni di vino bianco e uno di rosso
ed infine una cassettina di insalate varie. Stavo aiutando il cuoco di un
ristorante del porto a scaricare quella merce, mentre Michele fece credere a
Biagio che la stavo portando a casa di Antonio di Rosa per una ennesima cena.
Sfortuna volle che Antonio di Rosa, il giorno dopo, si sentì male
davanti al bar e lui lo sgridò dicendogli che aveva visto di persona la
roba che io avevo portato a casa sua e che quindi non si doveva lamentare.
Davanti allo stupore di
Antonio di Rosa, noi morivamo dalle risate.
Un problema di
circolazione sanguigna in poco tempo fiaccò la forte tempra di Biagio
che, nonostante avesse un solo braccio, era sempre stato autosufficiente.
La storia dei Giuvannuzzi marinai finisce con loro in quanto, nonostante avessero parecchi figli e nipoti, nessuno ne ha seguito le orme, preferendo alla via del mare quella della terraferma.