Il grande gelso
sapori e immagini di
una volta
É proprio
un brivido quello che si appropria quasi totalmente del mio essere, quando ti riscopro, caro vecchio volume, tra i tanti libri della mia
biblioteca.
Sfoglio
nuovamente con avidità le tue pagine che nel ‘94 seppero dare conforto alla mia
solitudine e alla mia malinconia in una anonima stanza
di ospedale e che oggi,
ultracinquantenne, mi riportano agli affetti e alla vita semplice della mia
infanzia.
É una
teoria di bozzetti familiari e di vita quotidiana della Lecce degli anni ’50, tipici del filone letterario neorealista,
quelli che si susseguono nelle pagine de Il
grande gelso scritto con stile semplice, pulito e coinvolgente da Giuseppe
De Simone per le edizioni del Grifo
di Lecce.
É la fanciullezza
dell’Autore, spensierata, che si accontenta del poco. l’elemento
unificante del mosaico dei tanti episodi descritti, vissuti nella serena
semplicità degli affetti familiari e dell’ambiente circostante.
In essi
mi rividi e mi rivedo oggi, come quando, dopo una
passeggiata, o la visione, peraltro rara di un film, spesso, sulla strada del
ritorno, mio padre mi teneva per mano e il chiarore della luna proiettava sulla
strada le nostre lunghe ombre silenziose.
Sono
proprio i ricordi, che, come quelle ombre silenziose, discrete, tenacemente
attaccate alla nostra corporeità, danno senso e umanità alla nostra individuale
piccola storia di uomini.
Ricordi dove la concretezza
degli episodi si confonde con la contemporanea gioia di averli vissuti come la
trepida attesa della lambretta o
della topolino che avrebbe permesso,
su strade per lo più sconnesse e polverose, le prime gite motorizzate nell’intimità
familiare o lo stupore di fronte ad immagini, ancora incerte in bianco e nero,
di quel primo televisore tanto atteso e desiderato che divenne, poi, giunto in
casa, per alcune trasmissioni, elemento di più frequenti incontri e di
aggregazione con quei vicini che ne erano ancora sprovvisti.
Rivissi e
rivivo con te il ricordo di quando mio padre o mia madre mi mandavano a
comprare, nella vicina osteria, dopo avermi affidato una bottiglia di vetro, il
solito litro di vino e talvolta la gassosa seguita dalla raccomandazione
dell’oste per la restituzione del vuoto di quest’ultima e i volti dei soliti
avventori, tra i quali timidamente mi aggiravo, ora appoggiati col gomito al
banco di mescita ora seduti ai tavolini su sedie impagliate, intenti, tra un sorso
e l’altro, a giocare a carte e che ora il tempo, nel ricordo sfumato dei loro
lineamenti me li rende, non più aspri come allora, ma trasfigurati nella mia
memoria, familiari e cari nei loro atteggiamenti ora pensosi, ora estroversi sotto l’effetto dell’alcool, unico rimedio
per essi, per valicare la barriera della noia quotidiana e ... sognare.
Rividi e
rivedo, in queste pagine, l’artigiano malmesso che con un trapano speciale (trapanaturu) si
aggirava per le vie del paese, pronto a riparare recipienti ed
ogni altro oggetto di terracotta, quel preistorico operatore del riciclaggio
che, in cambio di lana vecchia, ferro o alluminio, ti offriva qualche bicchiere
di vetro o imbuto di plastica, l’esile figura della nonna, curva su un
particolare recipiente di creta (cofano -
ngofanaturu) intenta a fare il bucato ed esaltare
sempre, in quei momenti, il potere sbiancante della cenere, accuratamente
raccolta in precedenza dal focolare, ma principalmente rividi e rivedo voi,
cari compagni della mia giovinezza con i quali ho condiviso i giochi semplici
ereditati dalla tradizione popolare nella più gaia spensieratezza e che il
tempo e la società con le sue leggi ha poi diviso fisicamente, destinando a
ciascuno una strada non sempre scorrevole.
Oggi
rivedo te, Giuseppe De Simone, sotto il grande gelso, al confine tra la zona
urbanizzata e la campagna della tua Lecce degli anni ‘50, nel momento della raccolta del frutto e portare alla
mamma, risparmiati alla tua golosità, una manciata di
gelsi poggiati su una foglia, che i contadini, avendoti notato, ti avevano
regalato.
Quell’albero,
sacrificato poi, forse anche giustamente al progresso,
rappresenta metaforicamente la fine di un’epoca, quando ogni desiderio che si
riusciva a realizzare aveva il sapore soddisfatto di una conquista dopo
un’aspirazione sofferta e lungamente programmata, ma anche l’epoca di una
giovinezza, quale la nostra, forse non vissuta pienamente, ma colma di valori e
riferimenti semplici e forti che oggi ci permettono di riviverla e ricordarla
senza rimpianti e con amore.
Da
“Il Sirino” Marzo 2001