Dal libro di Sergio De Nicola:

Maratea … parliamone ancora

Il grande gelso

sapori e immagini di una volta

É proprio un brivido quello che si appropria quasi totalmente del mio essere, quando ti riscopro, caro vecchio volume, tra i tanti libri della mia biblioteca.

Sfoglio nuovamente con avidità le tue pagine che nel ‘94 seppero dare conforto alla mia solitudine e alla mia malinconia in una anonima stanza di ospedale e che oggi, ultracinquantenne, mi riportano agli affetti e alla vita semplice della mia infanzia.

É una teoria di bozzetti familiari e di vita quotidiana della Lecce degli anni ’50, tipici del filone letterario neorealista, quelli che si susseguono nelle pagine de Il grande gelso scritto con stile semplice, pulito e coinvolgente da Giuseppe De Simone per le edizioni del Grifo di Lecce.

É la fanciullezza dell’Autore, spensierata, che si accontenta del poco. l’elemento unificante del mosaico dei tanti episodi descritti, vissuti nella serena semplicità degli affetti familiari e dell’ambiente circostante.

In essi mi rividi e mi rivedo oggi, come quando, dopo una passeggiata, o la visione, peraltro rara di un film, spesso, sulla strada del ritorno, mio padre mi teneva per mano e il chiarore della luna proiettava sulla strada le nostre lunghe ombre silenziose.

Sono proprio i ricordi, che, come quelle ombre silenziose, discrete, tenacemente attaccate alla nostra corporeità, danno senso e umanità alla nostra individuale piccola storia di uomini.

Ricordi dove la concretezza degli episodi si confonde con la contemporanea gioia di averli vissuti come la trepida attesa della lambretta o della topolino che avrebbe permesso, su strade per lo più sconnesse e polverose, le prime gite motorizzate nell’intimità familiare o lo stupore di fronte ad immagini, ancora incerte in bianco e nero, di quel primo televisore tanto atteso e desiderato che divenne, poi, giunto in casa, per alcune trasmissioni, elemento di più frequenti incontri e di aggregazione con quei vicini che ne erano ancora sprovvisti.

Rivissi e rivivo con te il ricordo di quando mio padre o mia madre mi mandavano a comprare, nella vicina osteria, dopo avermi affidato una bottiglia di vetro, il solito litro di vino e talvolta la gassosa seguita dalla raccomandazione dell’oste per la restituzione del vuoto di quest’ultima e i volti dei soliti avventori, tra i quali timidamente mi aggiravo, ora appoggiati col gomito al banco di mescita ora seduti ai tavolini su sedie impagliate, intenti, tra un sorso e l’altro, a giocare a carte e che ora il tempo, nel ricordo sfumato dei loro lineamenti me li rende, non più aspri come allora, ma trasfigurati nella mia memoria, familiari e cari nei loro atteggiamenti ora pensosi, ora estroversi sotto l’effetto dell’alcool, unico rimedio per essi, per valicare la barriera della noia quotidiana e ... sognare.

Rividi e rivedo, in queste pagine, l’artigiano malmesso che con un trapano speciale (trapanaturu) si aggirava per le vie del paese, pronto a riparare recipienti ed ogni altro oggetto di terracotta, quel preistorico operatore del riciclaggio che, in cambio di lana vecchia, ferro o alluminio, ti offriva qualche bicchiere di vetro o imbuto di plastica, l’esile figura della nonna, curva su un particolare recipiente di creta (cofano - ngofanaturu) intenta a fare il bucato ed esaltare sem­pre, in quei momenti, il potere sbiancante della cenere, accuratamente raccolta in precedenza dal focolare, ma principalmente rividi e rivedo voi, cari compagni della mia giovinezza con i quali ho condiviso i giochi semplici ereditati dalla tradizione popolare nella più gaia spensieratezza e che il tempo e la società con le sue leggi ha poi diviso fisicamente, destinando a ciascuno una strada non sempre scorrevole.

Oggi rivedo te, Giuseppe De Simone, sotto il grande gelso, al confine tra la zona urbanizzata e la campagna della tua Lecce degli anni ‘50, nel momento della raccolta del frutto e portare alla mamma, risparmiati alla tua golosità, una manciata di gelsi poggiati su una foglia, che i contadini, avendoti notato, ti avevano regalato.

Quell’albero, sacrificato poi, forse anche giustamente al progresso, rappresenta metaforicamente la fine di un’epoca, quando ogni desiderio che si riusciva a realizzare aveva il sapore soddisfatto di una conquista dopo un’aspirazione sofferta e lungamente programmata, ma anche l’epoca di una giovinezza, quale la nostra, forse non vissuta pienamente, ma colma di valori e riferimenti semplici e forti che oggi ci permettono di riviverla e ricordarla senza rimpianti e con amore.

Da “Il Sirino” Marzo 2001

 

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