Dal libro di Sergio De Nicola:
Maratea … parliamone ancora
Tradizioni del Capodanno a
Maratea
Il buon anno del “cupi- cupi”,”u
pizzottu”e le serenate
In tutti i
tempi la fine e l’inizio dell’anno sono stati
celebrati con particolari riti che hanno sempre rinnovato il profondo valore
spirituale e simbolico radicato nel sentimento delle genti.
Essi,
nelle intenzioni di chi le compie, non sono altro che la propiziazione con
gesti o atti di maggiori fortune per l’anno che viene.
Nella Roma
classica, ai primi di marzo, che segnava l’inizio dell’anno religioso, veniva ravvivato il fuoco della dea Vesta e rami di alloro
venivano appesi al palazzo reale. Nemmeno quando nel
In alcune
regioni dell’Indocina, ricche di foreste e di prodotti agricoli, si pregava
che piovesse per rendere ancora più fertile la terra; nella Scozia si effettuavano processioni incamminate come il sole, da est a
ovest, con in testa un uomo vestito con pelle di bue e che toccato, avrebbe
assicurato per tutto l’anno molta fortuna e ottima salute.
Usanze
dimenticate che tornano, in questa occasione, a nuova
se pur effimera vita si riscontrano anche in questo lembo tirrenico di terra
lucana.
La vigilia
di Capodanno infatti gruppi di giovani, riprendendo
una tradizione molto comune specialmente in Campania e Lucania, vanno girando
di casa in casa al caratteristico suono del cupi-cupi.
Anche
Carlo Levi si è soffermato su questa usanza. Nel suo
volume Cristo si è fermato a Eboli
scrive: Il cupi-cupi è uno strumento rudimentale fatto di una
pentola o di una scatola di latta con l’apertura chiusa da una pelle tesa come un tamburo. In mezzo alla pelle è infisso
un bastoncello di legno. Soffregando con la mano destra in su
e in giù il bastone si ottiene un suono basso, tremolante, oscuro come un
monotono brontolio.
A Maratea
si usa suonare il cupi-cupi solo la
vigilia di Capodanno.
Quello
della vigilia di Capodanno è un canto tipico che purtroppo ora non viene più cantato nella sua integrezza,
e il testo, tramandato per tradizione verbale è stato alterato ragione per cui
è particolarmente difficile ricostruirlo. La versione più rispondente alla
giusta mi sembra essere quella che in parte ora trascrivo:
Cupi
cupi cu lu bon annu,
quannu è crai è capudannu,
su
festi principali
e nui vinimmu c’à a cantà.
Cantamu cu
alligrizzi,
cu piaciri e cuntintizzi,
lu capu di la casa
n’ci
dà nu bellu vasu,
li
vasi su li figli
ch’adduranu com’a i gigli,
li
figli e li figlioli
santa
notte a vui signori.
A ca’a
cent’anni sia di ... Ammén.
Qui finisce la prima parte del canto, e prima
di iniziare a trascrivere le seconda
parte, nella quale si parla
della storia di Cristo dalla nascita alla morte, bisogna fare una
precisazione sull’ultimo verso di questa prima parte.
Il cantore
appena terminata la perifrasi A ca’ a
cent’anni sia di... un membro della famiglia dice il nome del capofamiglia
e poi dei vari figli, per cui il testo completo risulterebbe
ad esempio il seguente: A ca’a cent’anni sia
di Antonio gran fortuna, al che tutti i componenti rispondono Ammén.
Qui inizia la seconda parte
del canto:
Allurii allu bunannu
chi Diu n’ci lu cunceda
come
dal ciel pusseda
uditè n’paci. ...
... ...
...
Fanni quantu
tu sai
non ti
cantami ’ngiuria
pi no’ fa mali auguri a capudannu.
E capudannu
a tutti e santa notti.
U’ PIZZOTTU
Sempre
nella ricorrenza di Capodanno ai nostri giorni viene
cantato solo da qualche rarissimo e anziano contadino un breve inno di
augurio.
Boni festi bonu
capudannu!!!
Su vinutu
da Napuli apposta
pi vi vinì a canti li santi festi,
rapitinci
sti porti e sti finestri
facitinci trasì pi grazia vostra.
Non è mancata mai l’acqua nu mari
mancu dinari a vostra signuria.
Mitti na manu a stu
bursillu d’oru
e fa
nu signu di galanteria.
Questi
sono i più tradizionali canti del Capodanno a Maratea; peccato però che con lo evolversi della nostra società, passano nel dimenticatoio
certi usi che sono la testimonianza di una società sana, di una profonda e semplice
spiritualità, che non dovrebbe in alcun modo essere soppiantata, ma dovrebbe
camminare di pari passo con l’evoluzione sociologica di un popolo.
La sera
del Capodanno si usava (questo ora accade specialmente
nelle famiglie tradizionaliste) trascorrerla nella più stretta intimità familiare,
gustando cibi particolari in segno di buon augurio. Tra l’altro immancabili debbono essere le zeppole zirpuli; altri ghiotti cibi che convien mangiare sono baccalà
fritto, insalata di broccoli neri e sette specie di frutta.
Nel
focolaio per tutta la notte deve ardere un grosso ceppo, in modo da permettere
alle anime dei morti di riscaldarsi.
Fino a
poco tempo fa, le famiglie meno abbienti in questa data portavano Li cannisti ossia ceste di primizie senza
avere nulla in cambio, alle famiglie più influenti; fortunatamente questa
usanza di deprimente servilismo, nel nostro paese, è quasi del tutto scomparsa.
Di quel
che non rimane più ricordo, tranne che nelle persone più anziane, è l’usanza
delle serenate che al suono delle zampogne gli innamorati rivolgevano, tra un
bicchiere di vino e l’altro, alle loro innamorate.
Sono
riuscito ad avere un testo, che a quanto mi dicono era
alquanto diffuso tra i nonni dei nostri nonni.
Questo
canto, con il quale termino, è di una grande bellezza;
in esso appare chiaro il turbamento prodotto nell’animo del giovane dall’
amore, tanto che terminava con questi versi:
Non su tanti li peni di l’unfernu
quantu su li
peni dì l’amanti.
Comunque
mi piace trascriverlo per intero affinché tutti ne possano apprezzare il
limpido e passionale fluire dei sentimenti.
Giovina
bella e catina d’oru
appena ti
viddi mi ni n’ammurai
mi lu punisti nu chiovu a stu cori
menzu stu pettu na
chiaga murtali.
Li
genti mi cunvinciunu cu paroli,
vurriunu chi io ti lassassi d’amari,
ma iu non ti lassu, no,
mangu si vavu n’unfernu a pinari.
Non su tanti li peni di l’unfernu
quantu su li peni di l’amanti.
Da
“