Dal libro di Sergio De Nicola:
Maratea … parliamone ancora

Tradizioni del Capodanno a Maratea

Il buon anno del “cupi- cupi”,”u pizzottu”e le serenate

 

In tutti i tempi la fine e l’inizio dell’anno sono stati celebrati con particolari riti che hanno sempre rinnovato il profondo valore spirituale e sim­bolico radicato nel sentimento delle genti.

Essi, nelle intenzioni di chi le compie, non sono altro che la propiziazione con gesti o atti di maggiori fortune per l’anno che viene.

Nella Roma classica, ai primi di marzo, che segnava l’inizio dell’anno religioso, veniva ravvivato il fuoco della dea Vesta e rami di alloro venivano appesi al palazzo reale. Nemmeno quan­do nel 135 a.C. si cominciò a contare l’anno civi­le dal primo gennaio queste usanze vennero meno, anzi si affermò l’usanza dello scambio delle strenne in segno di augurio.

In alcune regioni dell’Indocina, ricche di fore­ste e di prodotti agricoli, si pregava che pio­vesse per rendere ancora più fertile la terra; nella Scozia si effettuavano processioni incamminate come il sole, da est a ovest, con in testa un uomo vestito con pelle di bue e che toccato, avrebbe assicurato per tutto l’anno molta fortu­na e ottima salute.

Usanze dimenticate che tornano, in questa occasione, a nuova se pur effimera vita si riscontrano anche in questo lembo tirrenico di terra lucana.

La vigilia di Capodanno infatti gruppi di gio­vani, riprendendo una tradizione molto comune specialmente in Campania e Lucania, vanno gi­rando di casa in casa al caratteristico suono del cupi-cupi.

Anche Carlo Levi si è soffermato su questa usanza. Nel suo volume Cristo si è fermato a Eboli scrive: Il cupi-cupi è uno strumento rudimentale fatto di una pentola o di una sca­tola di latta con l’apertura chiusa da una pelle tesa come un tamburo. In mezzo alla pelle è in­fisso un bastoncello di legno. Soffregando con la mano destra in su e in giù il bastone si ottiene un suono basso, tremolante, oscuro co­me un monotono brontolio.

A Maratea si usa suonare il cupi-cupi solo la vigilia di Capodanno.

Quello della vigilia di Capodanno è un canto tipico che purtroppo ora non viene più cantato nella sua integrezza, e il testo, tramandato per tradizione verbale è stato alterato ragione per cui è particolarmente difficile ricostruirlo. La versione più rispondente alla giusta mi sembra essere quella che in parte ora trascrivo:

Cupi cupi cu lu bon annu,

quannu è crai è capudannu,

su festi principali

e nui vinimmu c’à a cantà.

Cantamu cu alligrizzi,

cu piaciri e cuntintizzi,

lu capu di la casa

n’ci dà nu bellu vasu,

li vasi su li figli

ch’adduranu com’a i gigli,

li figli e li figlioli

santa notte a vui signori.

A ca’a cent’anni sia di ... Ammén.

Qui finisce la prima parte del canto, e prima di iniziare a trascrivere le seconda parte, nella quale si parla della storia di Cristo dalla na­scita alla morte, bisogna fare una precisazione sull’ultimo verso di questa prima parte.

Il cantore appena terminata la perifrasi A ca’ a cent’anni sia di... un membro della fami­glia dice il nome del capofamiglia e poi dei vari figli, per cui il testo completo risulterebbe ad esempio il seguente: A ca’a  cent’anni sia di Antonio gran fortuna, al che tutti i compo­nenti rispondono Ammén.

Qui inizia la seconda parte del canto:

Allurii allu bunannu

chi Diu n’ci lu cunceda

come dal ciel pusseda

uditè n’paci. ...

... ... ...

 

Fanni quantu tu sai

non ti cantami ’ngiuria

pi no’ fa mali auguri a capudannu.

E capudannu a tutti e santa notti.

U’ PIZZOTTU

Sempre nella ricorrenza di Capodanno ai no­stri giorni viene cantato solo da qualche raris­simo e anziano contadino un breve inno di augurio.

Boni festi bonu capudannu!!!

Su vinutu da Napuli apposta

pi vi vinì a canti li santi festi,

rapitinci sti porti e sti finestri

facitinci trasì pi grazia vostra.

Non è mancata mai l’acqua nu mari

mancu dinari a vostra signuria.

Mitti na manu a stu bursillu d’oru

e fa nu signu di galanteria.

Questi sono i più tradizionali canti del Capodanno a Maratea; peccato però che con lo evolversi della nostra società, passano nel di­menticatoio certi usi che sono la testimonianza di una società sana, di una profonda e sem­plice spiritualità, che non dovrebbe in alcun mo­do essere soppiantata, ma dovrebbe camminare di pari passo con l’evoluzione sociologica di un popolo.

La sera del Capodanno si usava (questo ora accade specialmente nelle famiglie tradizionali­ste) trascorrerla nella più stretta intimità fami­liare, gustando cibi particolari in segno di buon augurio. Tra l’altro immancabili debbono essere le zeppole zirpuli; altri ghiotti cibi che con­vien mangiare sono baccalà fritto, insalata di broccoli neri e sette specie di frutta.

Nel focolaio per tutta la notte deve ardere un grosso ceppo, in modo da permettere alle anime dei morti di riscaldarsi.

Fino a poco tempo fa, le famiglie meno abbienti in questa data portavano Li cannisti ossia ceste di primizie senza avere nulla in cambio, alle famiglie più influenti; fortunata­mente questa usanza di deprimente servilismo, nel nostro paese, è quasi del tutto scomparsa.

Di quel che non rimane più ricordo, tranne che nelle persone più anziane, è l’usanza delle serenate che al suono delle zampogne gli inna­morati rivolgevano, tra un bicchiere di vino e l’altro, alle loro innamorate.

Sono riuscito ad avere un testo, che a quanto mi dicono era alquanto diffuso tra i nonni dei nostri nonni.

Questo canto, con il quale termino, è di una grande bellezza; in esso appare chiaro il tur­bamento prodotto nell’animo del giovane dall’ amore, tanto che terminava con questi versi:

Non su tanti li peni di l’unfernu

quantu su li peni dì l’amanti.

Comunque mi piace trascriverlo per intero af­finché tutti ne possano apprezzare il limpido e passionale fluire dei sentimenti.

Giovina bella e catina d’oru

appena ti viddi mi ni n’ammurai

mi lu punisti nu chiovu a stu cori

menzu stu pettu na chiaga murtali.

Li genti mi cunvinciunu cu paroli,

vurriunu chi io ti lassassi d’amari,

ma iu non ti lassu, no,

mangu si vavu n’unfernu a pinari.

Non su tanti li peni di l’unfernu

quantu su li peni di l’amanti.

Da “La Via Nova”Dicembre 1971

 

 

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